Economia

Zuckerberg non è Atlante

01
Luglio 2020
Di Redazione

Nel giro di pochi giorni sono sempre più numerose, e rilevanti, le aziende che hanno aderito a #StopHateForProfit la campagna per la sospensione della pubblicità su Facebook. Tra queste: Adidas, Coca-Cola, Ford, Honda, Levi Strauss, HP e Microsoft. Ma procediamo per punti.

Il fenomeno, che vede forme di protesta su scala globale a seguito dell’omicidio di George Floyd, è ormai irrefrenabile. Nella specifico quest’ultima iniziativa mette sotto accusa la piattaforma di Mark Zuckerberg, colpevole di diffondere, o – per meglio dire – di non riuscire a prevenire la diffusione di notizie e contenuti che fomentano odio razziale e discriminazione senza alcun controllo.

Contesto in cui si inserisce inevitabilmente un dibattito di grande respiro. Il tema del rispetto dei diritti fondamentali, in particolare quello sulla libertà di espressione, ha avuto grande spazio nel corso di questi mesi proprio a causa del dilagare delle fake news e della violenza verbale sui social. Non si può dire certo che anche Mark non si sia attivato, cercando di portare il dibattito a livello internazionale, e proponendo ai governi di collaborare per intervenire su un quadro regolamentare in grado di trovare una soluzione.

Solo pochi mesi fa, a cavallo dell’incontro tra Zuckerberg e la Commissione Europea,  c’è stato un tentativo da parte di Facebook di elaborare cinque proposte sotto forma di libro bianco – Charting a Way Forward: Online Content Regulation – contenente indicazioni e linee guida  sulla regolamentazione online.

Attribuire alle piattaforme social, indipendentemente da quale, una responsabilità editoriale andrebbe contro lo stesso principio in base al quale sono nate, ovvero quello di dare la parola a chi parola non aveva fino a poco più di un decennio fa. E’ un bene? E’ un male? Difficile dare un giudizio netto con il senno di poi.  Se in aggiunta consideriamo i numeri (solo per Facebook parliamo di oltre due miliardi di utenti a livello mondiale, per non parlare della quantità di contenuti postati giornalmente) avere controllo su tutto ciò che viene pubblicato non è cosa da poco, per non dire impossibile in tutta sincerità. D’altra parte, è doveroso un impegno sempre più energico che nel tempo trovi una soluzione tecnologicamente innovativa, che cerchi di contrastare quanto più possibile questo fenomeno.

Ritornando alle proteste, c’è da fare qualche considerazione. Che prescinde dalla giusta causa, indiscutibile, ma che riguarda la modalità degli attori coinvolti.

Se guardiamo l’altro lato della medaglia, ci rendiamo conto che in realtà l’interesse economico non riguarda solo la piattaforma di Zuckerberg. Negli ultimi anni abbiamo assistito a fenomeni di “green washing”, che si traduce nelle strategie di comunicazione da parte delle aziende che mostrano un “sincero” interesse verso le politiche di sostenibilità ambientale, finalizzate a dare un’immagine positiva di se stesse.

Ora, non per il gusto di fare l’avvocato del diavolo, ma siamo certi che tutta questo coinvolgimento da parte delle aziende che hanno aderito al movimento #StopHateForProfit, non sia – anche – una strategia volta a consegnare un’immagine di sé pulita agli occhi dei propri consumatori? Potremmo chiamarla per richiamo “diversity and inclusions washing”?

Paradossalmente proprio i social, gli stessi dove circolano le loro pubblicità,  fungono da cassa di risonanza, e il più piccolo degli errori o malintesi potrebbero travolgerle in un danno reputazionale mediatico di proporzioni galattiche. E diciamocelo francamente, se ciò accadesse, il danno reputazionale si tradurrebbe in un danno economico di pari entità. Basta prendere l’esempio di New Balance, l’azienda produttrice di calzature sportive, che nel 2016 si trovò di fronte a decine e decine di utenti sui social che postavano immagini delle loro scarpe incendiate e gettate nella spazzatura, a causa di una dichiarazione del portavoce che si era espresso, apparentemente, in favore di Trump. Situazione che costrinse l’azienda a rilasciare pubblicamente un messaggio chiarificatore per placare le proteste sul web. Tutto questo ovviamente ebbe un forte impatto anche dal punto di vista delle vendite.

Va sottolineato più e più volte che qui non si intende mettere in discussione la causa in sé. Non è accettabile in nessun modo –  e mai dovrà esserlo – qualsiasi forma di pregiudizio, razzismo, ingiustizia o brutalità, a cui abbiamo tristemente assistito in questi giorni.

La mia riflessione è più legata al contesto, e trovo mediaticamente sbagliato intraprendere una caccia alle streghe, per il semplice fatto che abbiamo bisogno di un colpevole da mettere sull’altare per sentirci meno in colpa. Forse bisognerebbe partire dalle piccole azioni individuali, anziché stare li a puntare il dito per sentirci più in pace con la nostra coscienza.

 

Axel Donzelli

 

photo credits: Roberto De Martino