Economia
Salari, la forbice si apre dagli anni ’80. Ora pesa l’inflazione
Di Giuliana Mastri
La discussione sul lavoro in Italia ruota spesso attorno alla debolezza dei salari e alla presunta inefficacia della contrattazione collettiva. Un recente studio di Bernardo Fanfani, Università di Torino, pubblicato a Luglio come Discussion Paper accademico e in sintesi su Lavoce.info, ricostruisce però con dati di lungo periodo l’andamento dei salari minimi fissati dai principali contratti collettivi e offre un quadro molto più articolato, soprattutto per quanto riguarda le differenze tra i lavoratori ad alta e bassa qualifica.
L’analisi prende in esame quattro decenni di storia salariale, concentrandosi sui contratti collettivi di metalmeccanici, commercio-terziario ed edilizia: tre settori che da soli coprono circa un terzo dei dipendenti privati e che, grazie al loro peso, influenzano anche i contratti di comparti minori.
Quattro decenni di salari minimi reali
Secondo Fanfani, dagli anni Ottanta in avanti emergono varie fasi distinte. Dopo un primo periodo di sostanziale stabilità, tra il 1992 e il 1994 si registra un calo dei salari reali, coincidente con la stagione di riforme che portò all’abolizione della scala mobile. Successivamente, dal 1995 al 2011, si apre una lunga fase di crescita dei salari minimi reali.
È proprio in questo periodo che le differenze tra lavoratori ad alta e bassa qualifica diventano più evidenti. I minimi dei profili professionali più qualificati crescono infatti molto di più rispetto a quelli delle mansioni meno pagate. Complessivamente, tra l’inizio degli anni Ottanta e il 2021, i lavoratori con inquadramenti più alti hanno visto un incremento reale compreso tra il 30 e il 45 per cento. Al contrario, chi si colloca ai livelli più bassi ha beneficiato solo di un +5-15 per cento.
Questa dinamica, sottolinea Fanfani, è particolarmente marcata negli anni Novanta, quando la contrattazione collettiva recepisce le richieste dei lavoratori più qualificati di una maggiore valorizzazione delle competenze, lasciandosi alle spalle i meccanismi di compressione salariale tipici della scala mobile. In quel decennio, stima l’autore, circa un terzo dell’aumento delle diseguaglianze nei salari giornalieri a tempo pieno deriva proprio dalle differenze introdotte nei minimi contrattuali.
Negli anni Duemila, invece, il quadro si riequilibra parzialmente: la crescita salariale risulta più diffusa e le diseguaglianze nei salari per giornata di lavoro tendono persino a ridursi lievemente.
Inflazione, il nodo degli ultimi anni
Dopo il 2012 la crescita dei minimi rallenta sensibilmente, pur rimanendo positiva. Il periodo 2015-2021 segna addirittura un massimo storico per quasi tutti i livelli di inquadramento. Ma il quadro cambia radicalmente con la crisi inflazionistica del 2022-2023: in due anni, i salari reali minimi subiscono un crollo che in alcuni casi azzera decenni di guadagni, colpendo indistintamente sia le qualifiche alte che quelle basse.
Nell’analisi di Fanfani, tra le variabili considerate – inflazione, disoccupazione e produttività settoriale – solo l’inflazione mostra un effetto significativo e persistente sull’andamento dei minimi salariali. Questo dato conferma la funzione storica della contrattazione come strumento di adeguamento al costo della vita, prima attraverso gli automatismi della scala mobile e poi mediante il meccanismo dell’inflazione programmata.
In altre parole, se le diseguaglianze salariali tra alti e bassi inquadramenti si spiegano con le scelte compiute dalla contrattazione soprattutto negli anni Novanta e Duemila, è invece l’inflazione a rappresentare il vero fattore destabilizzante negli anni più recenti, quando la perdita di potere d’acquisto ha colpito trasversalmente tutte le categorie.
Il bilancio tracciato da Fanfani è duplice: da un lato, la contrattazione collettiva ha garantito per quarant’anni una sostanziale tenuta dei salari orari reali, svolgendo un ruolo tutt’altro che marginale; dall’altro, essa non è riuscita a proteggere i redditi annuali dei lavoratori, spesso penalizzati da orari ridotti, discontinuità occupazionali, part-time involontario e cassa integrazione.
Un nodo strutturale che rimane aperto e che, sottolinea l’autore, rende ancora più urgente monitorare con attenzione le dinamiche salariali fissate dai contratti e il loro rapporto con il ciclo economico: perché a seconda delle fasi storiche, gli strumenti di politica pubblica realmente efficaci potrebbero essere molto diversi.





