Economia
Lavoro povero: un sintomo della fragilità economica italiana
Di Romano Benini
(Articolo di Romano Benini tratto da L’Economista, inserto del Riformista)
Il Rapporto Istat sulla situazione del paese, presentato nei giorni scorsi, ci conferma che in Italia
esiste un problema di “lavoro povero”. Per lavoratore povero si intende una condizione precisa,
ossia coloro che hanno un reddito disponibile inferiore al sessanta per cento del reddito mediano
nazionale (intorno agli 8 euro lordi orari). Si tratta del 12% circa dei lavoratori italiani, che vivono
questa condizione o perché lavorano part time o per i salari bassi. Quando si parla di questa
condizione e di come affrontarla la soluzione di solito viene collocata su un doppio binario, ossia la
contrattazione collettiva o il salario minimo. Per decenni, come previsto dalla stessa
interpretazione della Costituzione, il tema delle retribuzioni è stato di stretto dominio sindacale. In
questi anni la difficoltà dei sindacati di estendere la rappresentanza nelle aree più deboli del
mercato del lavoro ha determinato come conseguenza che alcune organizzazioni sindacali e forze
politiche hanno posto il tema dell’introduzione del salario minimo per legge. Sono intorno al dieci
per cento i lavoratori italiani che guadagnano meno di 9 euro lordi l’ora, considerata dai proponenti
una soglia di riferimento per l’introduzione di un eventuale salario minimo. Al tempo stesso molti
giuristi ed economisti sostengono che in una Nazione in cui abbiamo decine di diversi contratti
collettivi applicabili per la stessa categoria, l’introduzione di una soglia minima salariale rischia di
determinare una concorrenza al ribasso, con effetti persino controproducenti sulla retribuzione
media che si verrebbe a determinare.
A questa discussione sembra che continui a sfuggire un tema di fondo, che invece non sfugge
all’Istat, ossia che il fenomeno del lavoro povero costituisce la ricaduta su una minoranza di
lavoratori più deboli di una situazione complessiva che ha un significato ancora più grave, ossia il
rischio di impoverimento del lavoro italiano. Questo impoverimento si è determinato negli ultimi
vent’anni ed ha diverse ragioni. Una delle più evidenti è quella economica. Se la ricchezza non si
crea nessun contratto e tantomeno nessun salario per legge la può distribuire. E la ricchezza,
ossia il valore aggiunto, si determina nel rapporto tra competenze, innovazione e produttività. Non
ci si scappa. Riportare il tema dei salari e del lavoro povero alla questione della produttività,
dell’innovazione e della qualità è risolutivo.
Il lavoro povero costituisce in Italia soprattutto la conseguenza della presenza diffusa nel nostro
tessuto economico di settori a basso valore aggiunto e produttività. La minore innovazione genera
meno valore e quindi determina condizioni di lavoro peggiori e salari più bassi. Sappiamo bene
dove, come e perché questo accade. Nel 2024, ci ricorda l’Istat, la crescita dell’occupazione
superiore a quella del valore aggiunto ha comportato una diminuzione della produttività del lavoro
per occupato dello 0,9% e di quella per ora lavorata dell’1,4%. Questo fenomeno coinvolge
comparti significativi per la domanda di lavoro come i servizi alla persona, la ristorazione e la
ricettività turistica e non si può immaginare una risposta per legge o per contratti a questo
problema se non creiamo le condizioni economiche per un miglioramento della produttività e del
valore aggiunto nei settori più deboli o meno innovativi. Insomma l’occupazione in Italia cresce
dove esprime meno valore, ma restiamo fermi in quei settori che creano più valore e per questo
determinano anche migliori salari e condizioni di lavoro.
Questo fenomeno comporta un’altra conseguenza: i settori a basso valore aggiunto assorbono
meno manodopera qualificata e meno laureati, a cui si legano migliori retribuzioni. I livelli di
assunzione di laureati raggiunti in Italia sono particolarmente elevati (tra il 40 e il 55 per cento) tra
le attività dei servizi intensi in conoscenza, con gli incrementi più notevoli per quelli finanziari e di
informazione e comunicazione, mentre la crescita è invece più contenuta nelle attività
caratterizzate da minore scolarizzazione, quali le Costruzioni, i servizi di Alloggio e ristorazione, i
servizi alle imprese ed i servizi alla persona. Secondo Unioncamere il settore che in Italia esprime
la maggiore domanda di lavoro, ossia il turismo, ha una domanda di laureati inferiore al quattro per
cento.
È del tutto evidente da questi dati come in Italia la crescita dell’occupazione ha riguardato in
misura maggiore i profili con qualifiche medio-basse rispetto alle altre maggiori economie europee.
La questione di fondo è quindi oggi quella di definire una strategia che sostenga l’innovazione e la
produttività delle imprese e del lavoro in tutti i comparti, per mettere in qualità il nostro sistema
economico. Bisogna tornare a creare ricchezza sostenendo i settori, come il manifatturiero, che lo
sanno fare e facendo in modo che i settori che creano poco valore, dalla Pubblica amministrazione
al turismo, siano messi in grado di migliorare insieme qualità e stipendi.
