Economia

La rinascita di La Perla e la lezione sul lavoro femminile 

02
Dicembre 2025
Di Elisa Tortorolo

C’è un paradosso affascinante nella vicenda La Perla: il prodotto più impalpabile e delicato del Made in Italy – la lingerie di lusso – è stato salvato dalla ostinazione più dura e coriacea. Ieri, 1° dicembre 2025, i cancelli dello storico stabilimento di Bologna si sono riaperti per tutte le dipendenti. Non è il solito ammortizzatore sociale che prolunga l’agonia, ma un ritorno operativo: contratti firmati, macchine accese, un piano industriale da 30 milioni di euro.

Tuttavia, limitarsi a leggere l’acquisizione da parte del miliardario americano Peter Kern come l’ennesimo “salvataggio estero” sarebbe un errore di miopia economica. La vicenda La Perla ci dice qualcosa di molto più profondo sullo stato dell’occupazione femminile in Italia: quando il lavoro delle donne è detentore di un know-how artigianale unico, diventa un asset strategico capace di sopravvivere anche all’insuccesso della speculazione finanziaria.

L’arrivo di Peter Kern, ex CEO di Expedia, attraverso la Luxury Holding, mette fine a un decennio di gestione schizofrenica. Dal 2008 in poi, l’azienda fondata nel 1954 dalla “bustaia” Ada Masotti è passata di mano in mano tra fondi internazionali: prima JH Partners, poi la gestione Scaglia, infine il disastroso epilogo con il finanziere tedesco Lars Windhorst e la sua Tennor Holding.

Anni in cui La Perla è stata trattata come una commodity finanziaria, svuotata di strategia fino all’insolvenza dichiarata dal Tribunale di Bologna nel 2024. Il piano di Kern segna un’inversione a U: ritorno ai fondamentali. Investimenti per 30 milioni entro il 2027, rilancio del retail fisico nelle capitali della moda (Parigi e Milano) e potenziamento dell’e-commerce. Ma il vero capitale che Kern ha comprato non è il marchio, sono le mani delle lavoratrici.

In un’Italia dove l’occupazione femminile fatica a superare la soglia critica del 50% (una delle più basse d’Europa), il caso La Perla è un’anomalia statistica e qualitativa. Qui non parliamo di settore dei servizi o di lavoro precario, ma di manifattura ad altissima specializzazione.

Durante i mesi più bui della cassa integrazione e dell’incertezza, le lavoratrici hanno incarnato proprio questa visione. Non si sono limitate ai presidi, ma hanno creato il marchio “Le Perline”, producendo e vendendo capi per autofinanziarsi. Un gesto per mantenere viva la manualità e tutelare il capitale umano, per impedire che il deprezzamento delle competenze rendesse l’azienda non più appetibile per un investitore industriale.

Il rientro in fabbrica sancito ieri, con la firma degli ultimi contratti sotto la nuova “La Perla Atelier”, offre uno spunto di riflessione cruciale per il decisore politico ed economico. La salvezza di La Perla non è arrivata grazie a sussidi a pioggia, ma perché un investitore estero, innamorato del “saper fare” italiano, ha riconosciuto un valore economico in un collettivo di lavoro quasi interamente femminile.

A suggerire che la strada per colmare il divario occupazionale in Italia non passa solo per i servizi alla persona o il terziario generico, ma anche per la rivalutazione dell’artigianato industriale. Le “mani intelligenti” delle operaie bolognesi hanno dimostrato di avere un potere contrattuale immenso, capace di attraversare ministeri, aule parlamentari e crisi finanziarie. 

E se Kern ha scommesso sul fatto che l’intelligenza artificiale e l’automazione non potranno, nel breve periodo, replicare la complessità della corsetteria di alta moda, le dipendenti di La Perla tornano al lavoro consapevoli di aver vinto una sfida complessa: dimostrare che in un bilancio aziendale, la voce “personale” non è necessariamente spesa da tagliare, ma vero motore di ricchezza a lungo termine.