Economia

L’Italia tra inflazione e lo scudo anti-spread Bce. L’eterna partita dei conti

07
Gennaio 2023
Di Giampiero Cinelli

Nei momenti di maggiore incertezza politica il tema italiano che risale sempre in cattedra è quello della sostenibilità del debito pubblico. O più propriamente, la possibilità di finanziarlo e farvi fronte agevolmente. Perché al di là della mole di disavanzo, ora giunto attorno ai 2.770 miliardi di euro (il 150% in rapporto al Pil), agli stakeholders interessa se un Paese sarà in grado di pagare. Per alleviare questa incertezza, fino all’estate scorsa c’era il famoso “ombrello” della Bce, che attraverso il piano di acquisto di titoli di Stato teneva bassi gli interessi. Adesso queste politiche si sono interrotte, preservando solamente il reinvestimento delle somme dei rimborsi dei titoli precedentemente acquistati. E anche tale pratica avrà un termine. Ma attenzione, l’impegno della Bce per garantire la stabilità dei debiti pubblici europei è ancora in essere. Attraverso un nuovo strumento di cui i media principali hanno parlato pochissimo: il cosiddetto “scudo anti-spread” o anti-frammentazione. Tecnicamente denominato Transmission Protection Instrument (TPI). Come suggeriscono le parole stesse, il meccanismo mira a impedire che gli squilibri finanziari di una data regione possano trasferirsi alle altre, adesso che con l’implementazione dei fondi del Recovery e quindi del Pnrr, c’è bisogno di mantenere stabili i tassi di finanziamento sul mercato, specie rispetto alle quotazioni del Bund tedesco.

I criteri per ricevere l’assistenza

Di fatto, anche il TPI consiste nell’acquisto di debito di Stato sul mercato secondario (ossia dalle banche e non all’asta), ma non automaticamente, anche se una volta varato può avere una durata illimitata. Sembra un’ottima soluzione, eppure ci troviamo davanti alla solita creatura europea fatta di luci e ombre. Dato che pure in questo caso ci sono condizionalità all’attivazione del programma, oltre al fatto che la necessità della sua attivazione resta una valutazione in seno alla Bce. La Banca Centrale infatti interverrebbe solo se la situazione di eventuale crisi, non rispecchiasse gli effettivi fondamentali macroeconomici di un Paese. Cioè se l’attacco speculativo, si passi il termine, sembrasse “ingiustificato”. Il Paese che ha bisogno di assistenza finanziaria, non deve essere stato sottoposto a una procedura di infrazione per disavanzo eccessivo o deve aver intrapreso azioni efficaci in risposta alle raccomandazioni del Consiglio UE. Altri parametri sono: l’assenza di gravi squilibri macroeconomici, la sostenibilità di bilancio (valutata sulla base delle analisi di Commissione Europea, Meccanismo Europeo di Stabilità, Fondo Monetario Internazionale e altre istituzioni, oltre all’analisi interna della Bce) e politiche macroeconomiche sane e sostenibili, nel rispetto degli impegni presentati nei Piani di Ripresa e Resilienza.

Di fatto, con lo scudo anti-spread non si può parlare di un modello identico a quello del Mes, perché le direttive sarebbero meno stringenti, però è l’accesso alla protezione stessa, a venire mediato da una certa severità. Questa la linea di Christine Lagarde, considerata comunque un passo avanti rispetto a un’altra procedura alternativa a quella più diretta appena conclusa, ovvero l’OMT di draghiana memoria (Outright Monetary Transactions), in realtà mai attuata e concepita in concomitanza con la crisi dei debiti sovrani nel 2012. In realtà può ancora essere usata, ma si tratterebbe di un piano di acquisti dedicati al singolo Paese in difficoltà purché questo abbia già fatto ricorso al Mes.

L’utilizzo del Mes non è stato valutato da nessuno, almeno in questa fase. E in realtà ci si augura che i dubbi degli investitori finanziari siano smorzati dal successo dei Recovery Plan e dalle politiche interne dei governi. Al momento il clima in Europa non è dei migliori, vista l’inflazione ancora alta e le prospettive di crescita a ribasso, tanto che, in effetti, lo spread tra Italia e Germania è aumentato. Chiudendo questa settimana a 200, con una variazione rispetto all’anno precedente del +53,27%. Tuttavia per adesso la preoccupazione principale resta la crescita, più che la solvibilità delle obbligazioni. Siccome, nonostante il Btp a 10 anni sia arrivato a un rendimento del 4,2%, questa cifra è chiaramente inferiore a quella dell’inflazione, che in Italia a dicembre ha toccato l’11,6% e nel 2022 ha avuto una media del 8.1%. Bisogna appunto tenere a mente che fin quando lo Stato paga interessi più bassi dell’inflazione, il bilancio tendenzialmente ne giova, creandosi maggiore spazio per spese e investimenti. Di contro ciò penalizza i creditori, che sono anche i semplici risparmiatori, i quali tuttavia possono mantenere una parziale difesa dall’inflazione. Sempre meglio che non avere alcuna salvaguardia. Tutt’altro scenario è anzi quello dei tassi reali negativi, in cui lo Stato paga interessi superiori all’inflazione, come si è verificato negli anni recenti della deflazione e dei tassi vicini allo zero quando Draghi era governatore della Bce. In quel caso, anche se il rischio default pareva impossibile, il settore pubblico si è trovato in un assetto finanziario poco funzionale.