Economia
CNEL-OCSE: torna il rapporto sul lavoro, Brunetta lancia l’allarme crescita
Di Ilaria Donatio
Si è tenuta oggi a Villa Lubin la presentazione italiana dell’Employment Outlook 2025 dell’OCSE. Un appuntamento che segna il ritorno della consuetudine, interrotta da anni, di ospitare al CNEL i principali rapporti economici e sociali dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico. A rilanciare l’iniziativa è stato il presidente Renato Brunetta, che ha sottolineato come il recente Protocollo d’intesa firmato tra CNEL e OCSE rappresenti l’avvio di un programma organico di collaborazione su analisi e policy strategiche per il futuro del Paese.
Il rapporto conferma i livelli record del mercato del lavoro italiano, con l’occupazione ai massimi degli ultimi vent’anni e la disoccupazione ai minimi storici. Ma il quadro positivo è destinato a scontrarsi, nei prossimi decenni, con una crisi demografica senza precedenti. Nell’area OCSE, il tasso di dipendenza degli anziani – ovvero il rapporto tra over 65 e persone in età lavorativa – passerà dal 19% del 1980 al 52% stimato nel 2060. In Italia, l’impatto sarà ancora più marcato, con una riduzione del 34% della popolazione in età lavorativa entro il 2060, pari a 12 milioni di persone in meno. Il risultato, secondo le stime dell’OCSE, è un potenziale calo del PIL pro capite nazionale del 22% entro la metà del secolo.
«È una prospettiva che impone un cambio di passo radicale – ha dichiarato Brunetta –. Se non si interviene, il rallentamento della crescita sarà strutturale. Ma il rapporto indica anche le leve su cui agire per invertire la tendenza: ridurre il divario occupazionale di genere, valorizzare i giovani, incentivare la permanenza dei lavoratori anziani e attivare canali di immigrazione regolare capaci di integrare i nuovi arrivati nel tessuto produttivo».
Sui divari di genere, il presidente del CNEL ha ricordato che l’Italia resta tra i Paesi europei con i peggiori indicatori. Il gap occupazionale tra uomini e donne supera i 17 punti percentuali, con un tasso di inattività femminile ancora elevato e una quota ridotta di ragazze nei percorsi STEM, fermi al 20% contro il 40% dei ragazzi. Eppure, secondo l’OCSE, colmare questi divari – soprattutto tra i giovani – potrebbe garantire all’Italia il maggior contributo alla crescita del PIL pro capite tra i Paesi UE.
Anche sul fronte giovanile, il potenziale inespresso è enorme. I dati più recenti indicano oltre 1,3 milioni di NEET tra i 15 e i 29 anni, con un’incidenza nel Mezzogiorno più che doppia rispetto al Nord. Tra il 2011 e il 2024, più di 630 mila giovani italiani si sono trasferiti all’estero. Al netto dei rientri, la perdita netta supera le 440 mila unità, in gran parte laureati. Una fuga di cervelli che – ha osservato Brunetta – «indebolisce produttività, innovazione, sostenibilità del welfare e tenuta dei conti pubblici».
Altrettanto strategico sarà il coinvolgimento dei lavoratori più maturi. L’OCSE segnala l’urgenza di politiche che favoriscano la permanenza attiva nel mondo del lavoro, specie nel settore pubblico. Allinearsi agli standard internazionali per l’uscita dal lavoro degli over 60 in buona salute potrebbe valere, da qui al 2060, un aumento dello 0,45% annuo del PIL pro capite.
Ma la sfida demografica si gioca anche sul territorio. Le aree più fragili del Paese – le periferie urbane, le zone interne, il Sud – sono le più esposte a spopolamento ed emigrazione giovanile. «Servono interventi mirati, investimenti in infrastrutture materiali e digitali, servizi pubblici di qualità e reti locali di innovazione – ha aggiunto Brunetta –. E soprattutto, serve capitale umano qualificato che voglia restare o tornare in questi territori».
Per il presidente del CNEL, la leva decisiva resta quella della formazione. Un quarto del divario di produttività tra i Paesi OCSE è riconducibile al livello delle competenze. Il 12% è dovuto al disallineamento tra competenze e mansioni. Negli ultimi anni, molte imprese italiane hanno preferito assumere forza lavoro piuttosto che investire in tecnologia, proprio per la difficoltà di trovare sul mercato profili tecnici e digitali adeguati. Il risultato è un freno alla produttività e un lento recupero salariale. «Dobbiamo investire in istruzione, formazione tecnico-scientifica e politiche attive – ha concluso –. Solo così potremo conciliare produttività, crescita e coesione sociale».





