Cultura
Visa pour l’image – La fotografia come finestra sul mondo
Di Axel Donzelli
629 giorni. Tanto è trascorso, un anno e nove mesi dall’ultima volta che ho preso un aereo, e ammetto che è stato quasi emozionante imbarcarsi. L’occasione per questo tanto evocato ritorno alla normalità è stata la 33esima edizione di Visa pour l’image, festival internazionale di fotogiornalismo, fondato dall’ex giornalista francese Jean-François Leroy, e che si svolge a Perpignan, nel sud della Francia. Una sorta di Mecca che vede l’intrecciarsi di fotografi affermati, aspiranti ed amateur, con rappresentanti di agenzie e photo editor di grandi testate internazionali.
Anche se la pandemia ci ha dato la sensazione che il mondo si fosse fermato, i 25 reportages della kermesse fotografica, al contrario, hanno raccontato e dato voce, spesso in tutta la loro crudezza, a volte nella loro bellezza, ad eventi globali che non sempre ricevono l’attenzione mediatica che meritano, ma che rappresenteranno senza dubbio capitoli cruciali della storia contemporanea.
I temi affrontati sono stati vari, ma si può affermare con certezza che oltre la metà delle esposizioni avevano un minimo comun denominatore: la fragilità di fondo che caratterizza il nostro pianeta. Dove la precarietà degli equilibri è spesso messa in discussione dall’operato umano, in maniera tanto diretta come indiretta. Infatti, oltre al tema protagonista dell’anno quale la crisi sanitaria del Covid 19, le foto esposte descrivono la guerra in Siria, i migranti climatici in Bangladesh, la rivoluzione di Primavera in Birmania, gli scontri che continuano a perpetrarsi nella striscia di Gaza, fino agli ultimi giorni del campo per rifugiati di Moira, a Lesbo, devastato da un terribile incendio. Un domino di immagini, che, sebbene siano un pugno nello stomaco, hanno il dovere morale di tenere alta l’attenzione, permettendoci di vedere attraverso lo specchio che ci siamo costruiti tutt’intorno.
Non poche difficoltà – dettate dalla sintesi – vista la qualità complessiva dei lavori, alcuni dei fotoreporter meritano una menzione speciale a mio avviso. In primis, tributo particolare va al lavoro sulla crisi pandemica in India di Danish Siddiqui, premio Pulitzer e fotoreporter di Reuters, ucciso in Afghanistan mentre seguiva uno scontro tra le forze di sicurezza afghane e i talebani, poche settimane prima dell’inizio ufficiale di Visa pour l’image.
Proprio in questi giorni di caos in Afghanistan, che vedono i Talebani prendere il potere a Kabul, il fotografo di guerra Eric Bouvet, che ha spesso ritratto il paese dei “mille splendidi soli” nei suoi lavori, presenta una bellissima e toccante retrospettiva che racchiude 40 anni di carriera e immagini. Lo stesso Bouvet racconta che, nel corso di questi anni, il paese che ha visitato di più è stato proprio l’Afghanistan, a partire dal 1986 durante guerra sovietico-afghana: “Ci sono tornato una dozzina di volte. Quello che per me è interessante è che ho vissuto tutti i periodi”.
Non poteva mancare un fotografo italiano, Gabriele Galiberti, che, volando metaforicamente dall’altra parte del mondo con il suo lavoro “The Ameriguns”, racconta i collezionisti di armi negli Stati Uniti, ritraendoli nella loro intimità di casa intenti orgogliosamente a mettere a nudo la propria mania. “Non importa se sei democratico o repubblicano, nero o bianco, ricco o povero, le armi sono bloccate nel DNA dell’America”, afferma lo stesso Galiberti.
Infine, per concludere con una nota in agro-dolce, un lavoro che mi ha colpito tantissimo è stato quello di Jérôme Gence sullo “smartworking” o “teleworking” come sarebbe più opportuno dire. Si tratta del racconto di come le nuove tecnologie possono cambiare le pratiche di lavoro (come abbiamo avuto modo di vedere durante la pandemia!) e come una fetta di giovani occidentali abbiano deciso di trasferirsi a Bali (denominata da alcuni nomadi digitali la “Silicon Bali”) nella speranza di trovare soddisfazione lavorando a distanza.
Tante immagini, tanti input, ma soprattutto tante riflessioni che mettono in prospettiva il proprio mondo e le proprie certezze date dall’agio (non solo economico!) di vivere in questa parte di mondo. Forse, oltre che per i fotografi, dovrebbe essere un evento dove poter accompagnare per mano molti dei nostri governanti.