Cultura

Sistema calcio, si ricominci dagli stadi

14
Settembre 2023
Di Alessandro Cozza

L’Italia non è un paese per il calcio. Frase forte? Frase assurda? Forse, può essere. Ma se si vanno a guardare i numeri ci rendiamo conto che potrebbe non essere così sbagliata. I binari del nostro sistema calcio, come ogni rotaia che si rispetti, sono due e corrono paralleli. Il primo è quello dei risultati, il secondo è quello dello sviluppo del sistema amministrativo e di impianti. Ecco, gli impianti. Avete mai visto crescere una pianta senza radici? Gli impianti sportivi sono le radici di questo sport. Il condizionale, però, è quanto mai d’obbligo. Eh si perché la situazione nel nostro paese rasenta l’incredibile.

Ci autodefiniamo un popolo di 60milioni di allenatori, e probabilmente altrettanti presidenti per comprare o vendere questo o quel giocatore. Ma il punto non sono gli allenatori o i giocatori. O meglio, sono anche loro, ma non quello che determina le radici sulle quali crescere. Gli allenatori vanno e vengono, i giocatori anche. Gli impianti no, quelli stanno li, e senza quelli non è possibile ne crescere, ne svilupparsi. Se pensiamo che in Italia i primi stadi, tra quelli ancora in uso, sono stati realizzati nei primissimi anni del ‘900 e che l’unico vero momento di ammodernamento o di nuova realizzazione è quello dei Mondiali del 1990, questo spiega tutto, o quasi. Sicuramente spiega che da quel momento in poi poco o niente è stato fatto, ma spiega anche che nessun governo ha mai davvero realizzato riforme strutturali che permettessero di ammodernare gli impianti esistenti o di realizzarne di nuovi. E parlo di impianti, e non di stadi, perché il problema è molto più profondo di quello che appare.

Quello che tutti sanno è che in Serie A sono appena 5 su 20 le società proprietarie dei loro impianti di gioco: Juventus (inaugurato nel 2011), Udinese (ristrutturazione terminata nel 2016), Atalanta (sta rifacendo a tappe l’ex stadio comunale, quest’anno è stata abbattuta la curva Sud), Sassuolo (l’impianto è a Reggio ed è stato realizzato nel 1995) e la neopromossa Frosinone (ristrutturato nel 2017). Gli altri club giocano in impianti comunali con un’età media delle strutture che supera i 50 anni con un’età media che sta intorno ai 68 anni che in Germania scende a 38 anni e in Inghilterra a 35. A Roma, città in cui da 12 anni è abbandonato al suo destino lo Stadio Flaminio, la Roma “combatte” da più di 8 anni nel tentativo di avere un suo stadio. A Milano sono anni che si discute su San Siro si, San Siro no e siamo ancora lì. In serie B Lecco e Catanzaro hanno dovuto iniziare a giocare i loro campionati in altre città perché i loro stadi non pronti, e in Lega Pro lo stadio del Taranto, in condivisione con il Brindisi che ne è attualmente sprovvisto, va a fuoco perché ospita materiali incendiabili. Ma questi sono solo i maxi casi, quelli che guadagno la ribalta delle cronache nazionali.

Poi c’è tutto un mondo, quello dilettantistico. Quello che dovrebbe alimentare i settori giovanili dei club più blasonati, quello che potrebbe dare l’opportunità a piccole società di diventare grandi, quello che però molto spesso non può crescere proprio per mancanza di impianti omologati. Per capirci, a Roma, ci sono tre società che militano nel massimo campionato dilettantistico, la serie D. Due di queste sono costrette a giocare fuori dal comune per mancanza di luoghi idonei in cui giocare le partite di campionato. Tra queste c’è la Boreale, storica società nata a Ponte Milvio che da piccola realtà di quartiere è arrivata a contare oggi oltre 600 tesserati. “Siamo un paese in cui mancano le strutture e nel quale società che, come la nostra, voglio crescere in maniera sana e costante fanno davvero tanta fatica e si reggono solo sulla grande passione di presidenti e dirigenti”, ci ha raccontato Maurizio Villi, Direttore Sportivo della Boreale. “Il nostro impianto è dentro il parco di Monte Mario, a Roma nord, e a causa di vincoli e impedimenti amministrativi non abbiamo potuto omologare il nostro campo e siamo stati costretti ad andare a giocare fuori Roma con ulteriori costi da sommare a quelli già altissimi per la gestione di una stagione che prevede trasferte impegnative come la Sardegna. Per una società dilettantistica, in cui ogni euro ha un suo peso, ogni costo in più è un sacrifico in più”, spiega Villi.

Non aver partecipato agli ultimi due mondiali e faticare per qualificarsi ai prossimi europei, sono solo la punta dell’iceberg. Sotto c’è tutto un sommerso cha fa fatica a emergere perché non si investe in strutture, in servizi, in preparazione. E tutto questo alla fine si sconta. La rotta va invertita. Le società più piccole vanno aiutate e i ragazzi vanno valorizzati. O qualcuno si rende conto di questo e risolleviamo le sorti del nostro sistema dalle sue fondamenta, oppure il 2032, anno in cui ci candidiamo a ospitare gli Europei, sarà troppo tardi.