Cultura

Il punto sulla reputazione dell’Italia nel mondo con A. Deruda

13
Agosto 2022
Di Marco Cossu

Negli ultimi due anni la reputazione dell’Italia ha registrato una crescita eccezionale, migliorando la propria posizione in diversi indici che valutano il brand delle nazioni. A trascinare il Paese è stato un mix di elementi, dal governo alla cultura, che hanno consentito di rafforzare il brand Italia nella percezione e non solo dei cittadini stranieri. Ma perché è importante per una nazione avere una buona reputazione nel mondo? Avere una buona reputazione aiuta ad essere preferiti da consumatori e investitori globali nelle proprie scelte ed essere percepiti come partner più o meno affidabili. Abbiamo parlato dello stato di salute della reputazione italiana e delle prospettive future del marchio Italia con uno dei massimi esperti di Nation Branding e Digital Diplomacy, Antonio Deruda che 2021 ha coordinato la comunicazione digitale della Presidenza Italiana del G20, ricoprendo lo stesso incarico per il G7 italiano del 2017.

Antonio Deruda, coordinatore della comunicazione digitale della Presidenza Italiana del G20.

Qual è lo stato di salute della reputazione dell’Italia nel mondo?
«Partirei da qualche numero che ci viene fornito da alcuni indici che provano a misurare la reputazione dei paesi. Uno è l’indice che viene realizzato da Brand Finance, che vede l’Italia al nono posto nel mondo in questa classifica di nation branding. Un nono posto che viene ottenuto dopo una crescita decisamente importante avvenuta a cavallo tra 2020/2021. La reputazione italiana è cresciuta del 12%, molto più velocemente rispetto a tutti gli altri paesi, dopo un crollo che c’era stato nel 2020 a causa della pandemia, tutti i paesi ne avevano risentito un po’. L’Italia aveva avuto un crollo del 16% della propria reputazione, quindi c’è stato un forte scatto in avanti. La media dell’incremento degli altri paesi si è attestata al 6%, quello dell’Italia addirittura più del doppio. 

Top 10 most valuable nation brands 2021

Brand Finance Nation Brands

C’è un altro indice che possiamo prendere come riferimento, è l’indice storico creato dallo studioso di nation branding Simon Anholt, sviluppato in collaborazione con l’IPSOS, e vede l’italia addirittura al quarto posto nel mondo, dopo Germania, Canada e Giappone. Anche in questo caso l’Italia è il paese che ha avuto la crescita più importante: siamo passati dal sesto posto e siamo arrivati guadagnarci il quarto posto. Questo è un dato di fine 2021. 

Anholt-Ipsos Nation Brands Index (NBI)

IPSOS

Poi ovviamente ci sono altri indici, che vanno i maniera più verticale, sui settori, sulla cultura, sulla sostenibilità, ecc.. però questi due indici vedono l’Italia piazzata bene. Entrambi mettono in evidenza come l’Italia abbia avuto una crescita importante». 

A cosa è dovuto questo miglioramento reputazionale?
«C’è stato un mix di fattori. Una crescita così importante che stacca tutti gli altri paesi non può essere attribuita ad unico fattore. Tra questi c’è anche il governo Draghi, su questo c’è poco da contestare, al di là delle opinioni politiche. Draghi gode di una reputazione e di un’immagine così forte a livello internazionale che l’ha praticamente trasferita sull’intera immagine del paese. Oltre a questo ci sono altri elementi, apparentemente minori e meno importanti rispetto al governo ma che in realtà pesano. 

L’Italia è infatti uscita da una serie di successi sportivi, la vittoria agli Europei di calcio, vittorie e medaglie importanti alle olimpiadi. Lo sport ha dimostrato nel corso degli ultimi anni di pesare tantissimo sulla reputazione di un paese. La Germania che spesso primeggia in questi indici lo fa sicuramente per tutta una serie di fattori legati alla stabilità politica, alla forza della propria economia, ma una serie di analisi hanno evidenziato una crescita dopo la vittoria ai mondiali di calcio del 2014. 

https://twitter.com/Azzurri/status/1414485319920017408

Così come non trascurerei il ruolo del successo musicale dei Maneskin, ovvero una band che diventa addirittura una delle più amate negli Stati Uniti. Qualcuno ha parlato di ’”effetto Maneskin”, che in parte può aver contribuito a questo forte incremento registrato nel 2021. 

Infine c’è un altro elemento, riconosciuto da tanti soprattutto dopo aver visto come sono andate le cose negli altri paesi, una gestione della pandemia piuttosto oculata. Qui rientriamo in un discorso più politico, legato anche a ciò che ha fatto in parte il precedente governo e poi quello Draghi con la gestione dei vaccini. Questo a livello internazionale è stato riconosciuto all’Italia come una gestione ottimale della pandemia. Anche questo ha influito». 

Quali strumenti vengono utilizzati per elaborare gli indici per misurare la reputazione di un paese?
«Ci sono diversi indici. Quello di Brand Finance prende a riferimento elementi economici, quello di Anholt-IPSOS è più ampio, più di respiro. Di solito si muovono su due macro insieme di dati, i primi sono dati oggettivi, cioè vengono presi a riferimento dati sulla ricchezza del paese come il PIL o PIL pro capite, più tutta un’altra serie di dati relativi agli indici di sostenibilità di un paese o ad esempio il numero dei siti dell’Unesco, per misurare la forza culturale di un paese. 

Poi ci sono tutta un’altra serie di dati oggettivi che spaziano dalla competitività, al mercato del lavoro, alla corruzione, alla trasparenza, dati sul sistema giuridico. Poi accanto a questo ci sono i sondaggi. Anholt qualche anno fa ad esempio fece un sondaggio su venti nazioni diverse, coinvolgendo poco più di un migliaio di persone in ogni nazione, gli venivano poste delle domande del tipo “qual è secondo voi il paese culturalmente più influente nel mondo”. 

Attraverso i sondaggi si vanno di solito ad analizzare alcuni macro insiemi, come la politica e il governo – che pensano tantissimo e qui noi siamo in genere in difficoltà a causa dell’instabilità politica, poi l’economia, la cultura, lo sport (che rientra all’interno della cultura), la popolazione. Alle persone viene chiesto letteralmente cosa si pensa del popolo italiano. Devo dire che da quel punto di vista, aldilà dei pregiudizi, ci difendiamo piuttosto bene, in termini di apertura e accoglienza che sappiamo trasmettere. Poi c’è l’attrazione degli investimenti, un punto sul quale spesso perdiamo punteggio e infine l’attrattività turistica. Questi sono i macro insieme dal quali vengono tratte le classifiche che vediamo sui giornali». 

Il fatto che l’Italia si avvii verso un passaggio di consegne, potrebbe influire sulla reputazione del nostro paese?
«A mio avviso sì. Nell’incremento reputazionale che abbiamo sottolineato prima, l’effetto Draghi ha pesato notevolmente, così come ha pesato il ruolo che l’Italia ha svolto durante la presidenza Draghi del G20. Questo cambio di leadership potrebbe influire, specialmente nel corso dei prossimi mesi e di quello che sarà il primo anno del prossimo governo. Il governo incide molto, ma contano anche altri fattori, come il mondo delle imprese con i suoi rappresentanti di punta, così come incide il mondo culturale con i suoi esponenti. L’instabilità politica viene bilanciata da una maggiore stabilità del mondo imprenditoriale e culturale che vede invece dei grandi punti di riferimento italiani nel mondo. Questi per fortuna non cambiano così spesso come i governi. Io credo che ci potrebbe essere qualche assestamento dal punto di vista di punteggio dell’Italia, vedremo come la forza del Made in Italy, la forza di certi soggetti culturali ormai accreditati, riuscirà a temperare questo scostamento dovuto a una maggiore instabilità politica».

Esistono degli influencer italiani nel mondo, grandi o piccoli, che contribuiscono a rafforzare l’immagine del Paese? 
«Sì, sgombrando il campo da quello che è magari un pregiudizio sul termine stesso di influencer. Senza andare a pensare agli influencer tradizionali, quelli più patinati da account Instagram, oggi influencer può essere anche un ricercatore italiano che fa cultura attraverso i suoi canali social e lo fa magari in lingua inglese, dall’italia verso l’estero, oppure un musicista italiano che lavora all’estero, non conosciuto come i Maneskin, e che attraverso forme di comunicazione legate soprattutto ai social riesce a trasmettere un’idea di Italia nel luogo in cui vive. Senza pensare ad operazioni fatte con la Ferragni, ci può essere tutto un network di micro influencer, italiani che vivono in italia così come italiani – che vivono all’estero. Questo network può aiutare molto per veicolare l’immagine di un paese, al di là di quelli che sono gli stereotipi. Le persone di un paese quindi contano moltissimo anche del peso che viene attribuito al punteggio degli indici internazionali che vanno a misurare in nation branding». 

La reputazione di una nazione può essere cambiata? 
«La reputazione può essere cambiata. Ci vuole tempo. Ma è molto complicato farlo quando hai storicamente dei punti di debolezza che ti porti dietro. Penso all’Italia. I punti di debolezza sono sempre gli stessi. Giustizia, la grandissima incertezza sui tempi della giustizia italiana; trasparenza e corruzione, uno degli ultimi indici sulla percezione della corruzione in Italia ci vedeva addirittura dietro a Ruanda e Botswana; difficoltà di fare business in Italia. Questi ce li portiamo avanti da più trent’anni. Si tratta di cose ormai radicate, difficili da cambiare. Per sradicare questi elementi di debolezza e cercare di cambiare la reputazione di un paese, l’unica cosa da fare è quello di mettere in piedi un vero e proprio sistema di nation branding, non una semplice campagna – che è l’errore che è stato fatto in tempi passati con alcune iniziative spot, poco coordinate. 

Ci sono dei paesi che hanno messo in piedi dei veri e propri sistemi di nation branding, me ne viene in mente uno, la Svizzera. Non è un paese che abbia dei grossi difetti di reputazione da correggere, eppure nonostante questo, si è dotata di un dipartimento chiamato “Presenza Svizzera” che lavora specificatamente sul nation branding. Viene allocato un budget da parte del Consiglio Federale svizzero e tutta la strategia di comunicazione internazionale passa per un dipartimento al cui interno lavorano una serie di esperti che hanno le competenze specifiche per coordinare un lavoro che vede coinvolti tanti altri soggetti. Ecco da noi manca.

La prima cosa su cui vogliamo lavorare se vogliamo migliorare la reputazione dell’Italia – a fronte di un miglioramento che comunque c’è stato –  è un cambio di approccio. Non più semplici campagne ma una vera e propria struttura pensata per il nation branding». 

Chi sono i competitor dell’Italia nel mondo? 
«I competitor li possiamo individuare solo in base ai diversi settori. Difficilmente si può parlare di competitor a livello generale. Quando vediamo gli indici e vediamo davanti il Canada, mi viene difficile pensare al Canada come nostro competitor. Bisogna ragionare in maniera verticale. Ad esempio, prendiamo il discorso turismo. Sappiamo che sul turismo abbiamo competitor molto vicini a noi che sono Francia e Spagna, poi ci sono Stati Uniti e Cina, questi ultimi due faccio difficoltà a vederli come competitor. Mentre Francia e Spagna rappresentano dei competitor che dobbiamo sempre tenere d’occhio cercando di migliorare quelli che sono i nostri servizi sull’attrattività turistica. 

Oppure, sul discorso economia. L’Italia nelle classifiche è posizionata sempre molto in alto per quello che è l’export. Il Made in Italy rappresenta un elemento di stabilità che ci consente di avere punteggi alti. Lì il nostro competitor principale non può che essere la Germania ad esempio, altra grande manifattura europea. Per altri settori, il nostro competitor potrebbe essere la Francia per quanto riguarda il mondo della moda. Oppure se pensiamo alla cultura, dove l’Italia primeggia, ci sono due nazioni che spesso in alcuni indici sulla cultura ci soffiano il primo posto: Cina ed Egitto. Bisogna quindi individuare i competitor in maniera verticale. L’ultimo esempio, per quanto riguarda le persone, l’accoglienza, il saper vivere, la qualità della vita, l’intrattenimento, il principale competitor al mondo è il Brasile. Bisogna ragionare per comparti e migliorare servizi e strategie prendendo come riferimento i competitor solo a livello di quel comparto». 

Quanto possono contribuire i grandi eventi nella costruzione dell’immagine dell’Italia nel mondo? 
«Dalla mia duplice esperienza, quella di aver coordinato la comunicazione sia per il G7 sia per il G20 nel 2021, posso dire che la gestione di questi eventi ha una eco mediatica tale al punto di diventare strumento di diffusione di un nuovo nation branding. Penso ad esempio al G20, durato un anno intero. È vero che i riflettori mediatici si sono accesi soprattutto sul vertice di fine ottobre, ma in realtà il vertice è durato un anno intero e ha visto circa 170 eventi che si sono svolti durante l’anno, un po’ in tutto il Paese. 

Il fatto di avere scelto in un momento difficile – eravamo nel 2021 con molti paesi sotto restrizioni sugli spostamenti a causa della pandemia – di fare le riunioni più importanti in presenza andando a gestire una complessità legata a quello restrizioni, è stato qualcosa che è stato ampiamente apprezzato da tanti. Uno dei primi pregiudizi sull’Italia è quello di un Paese non impeccabile dal punto di vista dell’organizzazione. Se c’è da organizzare qualcosa mi rivolgo magari ad un americano o a un tedesco ma raramente a un Italiano. Ecco, abbiamo spazzato via anche questo pregiudizio. Tutta l’organizzazione di un anno intero di eventi, durante un periodo caratterizzato dalle restrizioni, è stata una grandissima vittoria che ha trasmesso un’idea di competenza italiana anche in un settore nel quale di solito agli italiani non viene riconosciuto granché. 

Per l’organizzazione degli eventi sono stati scelti dei luoghi simbolo della cultura italiana, a volte dei luoghi un po’ diversi dal solito. È vero che è stata fatta la riunione interministeriale a Palazzo Vecchio di Firenze, nell’immaginario internazionale tutti lo conoscono, però a Venezia è stata organizzata la riunione dei ministri delle finanze e dei governatori della banche centrali all’Arsenale, una zona di Venezia dove l’80% dei turisti non arriva. Anche la scelta della Nuvola per il Summit di Roma, un esempio di architettura contemporanea, in un paese dell’architettura invece storica che decide di ospitare il Summit in quello che è riconosciuto dal mondo come una struttura di grande avanguardia e di architettura contemporanea. 

Tutti questi piccoli elementi, uniti allo sforzo negoziale che ha portato a dei risultati concreti, vanno ad incidere in generale sull’immagine del Paese. Ovviamente, su tutto questo resta il fatto che il G20 italiano è stato riconosciuto come un G20 di successo. Sono state portate a casa non mere dichiarazioni di intenti, una critica che viene spesso rivolta a questo tipo di eventi multilaterali, ma siamo usciti fuori con degli impegni precisi e concreti. Questo credo abbia inciso su quell’incremento che abbiamo visto sull’immagine dell’Italia nel mondo». 

L’Italia di provincia contribuisce nella reputazione dell’Italia nel mondo? 
«Contribuisce, ma potrebbe farlo di più. Al momento sono poco valorizzati tutti gli elementi di forza che provengono dalla “piccola” Italia. Soprattutto dal punto di vista culturale e turistico. 

Occorre ragionare prima da un punto di vista economico e abbiamo visto quanto il peso di certi fattori economici sia fondamentale per gli indici che misurano la reputazione di un paese. Un esempio: Vicenza, una piccola città di provincia, è la seconda città per export in Italia dopo Milano. Questo non lo sappiamo nemmeno noi italiani, figuriamoci chi sta all’estero. Oppure, mi viene da pensare sempre ad un territorio molto votato all’economia, il Veneto. Il claim del Veneto quando si presenta all’estero è The land of Venice, come se Verona, Padova, Vicenza e altre straordinarie realtà economiche del nostro paese, vengano classificate come l’estensione della terraferma di Venezia. Qui accusiamo un ritardo di strategie di comunicazione che dovrebbero invece valorizzare di più le piccole realtà. 

Attenzione però, quando si comunica soprattutto a livello economico un paese, bisogna stare attenti all’eccessiva frammentazione. Faccio un esempio: qualche anno fa mi è capitato di andare ad un’importante fiera internazionale a Dubai accompagnando delle aziende. Il padiglione italiano era accanto al padiglione turco. Il padiglione turco aveva un’organizzazione straordinaria e soprattutto aveva una comunicazione molto d’impatto, molto coerente. Ovunque campeggiava la scritta Turkey, con i colori ufficiali e le bandiere. Il nostro padiglione, come si direbbe in termini geopolitici, era balcanizzato. C’erano tutta una serie di stand delle regioni e addirittura delle province. 

Per un italiano era già difficile entrare là dentro e riuscire a capire da dove venivano i prodotti che venivano mostrati, immaginiamo per uno straniero. Questo è un errore che in genere viene fatto quando si cerca di promuovere le realtà locali. lo si fa con un’eccessiva frammentazione, laddove invece il paese andrebbe presentato economicamente in maniera più compatta. Al momento non esiste ancora un province of origin effect , esiste invece un country of origin effect cioè un effetto economico legato al paese di origine che da una spinta fortissima ai prodotti, ossia il Made in Italy. Tranne alcuni casi, non esiste la provincia di origine di un prodotto e l’effetto che questo può avere sul marketing e sulla promozione commerciale di quel prodotto. 

Si aprono praterie immense, sulle quali si può lavorare, sul piano della cultura. Questa è la mia idea: economicamente porterei avanti un’idea più compatta del paese, pur valorizzando in maniera coerente alcune realtà locali che meritano di essere valorizzate, a livello invece culturale e turistico possiamo ancora lavorare tantissimo a livello locale. Ci sono ancora tantissime persone che arrivano in Italia, vanno a Roma, Firenze, Venezia, a volte Milano e qualche volta si spingono più a sud. Si deve lavorare con delle strategie di comunicazione alla valorizzazione di quei tanti luoghi straordinari che l’Italia può offrire». 

The Digital Diplomacy Handbook, Antonio Deruda

Italia e Soft Power. 
«Intendiamo come Soft Power la capacità di influenzare altre nazioni senza la coercizione sia militare che economica. I dati dell’ultimo Global Soft Power Index ci dicono che l’Italia è in decima posizione. Nel corso degli ultimi anni c’è stata una crescita che l’ha portata all’interno della top ten.

The World’s Top 10 Soft Power Nations 2022

Brand Finance 

Credo che alcune prospettive a riguardo ci fanno pensare che l’Italia sia ancora destinata a crescere, questo perché abbiamo quattro punti di forza straordinari: cultura, persone, l’export e il turismo. Attraverso questi quattro punti di forza, sui quali godiamo di ottima salute, nei prossimi anni possiamo lavorare veramente bene. L’Italia era al diciannovesimo posto fino a un paio di anni fa, a un certo punto era pure fuori dalle prime venti posizioni. Su questo stiamo crescendo bene e credo sia sempre più forte la percezione negli stranieri la forza del Soft Power italiano. 

Credo che la prima cosa da fare sia lavorare sulla stessa consapevolezza degli italiani di questi risultati, la cosa interessante è che quando si va a misurare la percezione della reputazione di un paese all’estero l’Italia ha dei risultati discretamente buoni. Quando si va misurare invece la percezione della percezione dell’Italia nel nostro Paese, quindi si chiede agli italiani  come si posiziona l’Italia secondo loro all’estero, ecco che lì siamo all’ultimo posto tra i paesi del mondo. Questo è un elemento di debolezza. Bisognerebbe lavorare su questo elemento, far conoscere agli italiani i punti di forza del nostro Paese, creare un clima di maggior ottimismo collettivo nei confronti dell’Italia. Ci sono stati molti paesi in cui le strategie di comunicazione del nation branding sono iniziate prima di tutto avendo come pubblico target i propri cittadini. Dopo aver galvanizzato i propri cittadini si esce fuori dai propri confini e si fa comunicazione internazionale. Ecco, rispetto ad alcune campagne che sono state lanciate di recente e che guardano subito ai mercati esterni, qualcosa in più invece occorre farlo sul nostro pubblico interno».