Cultura

I più bei ricordi di Osho. Intervista a Federico Palmaroli

31
Dicembre 2021
Di Marco Cossu

Osho con le sue vignette ha rivoluzionato il modo di fare satira politica in Italia. I suoi fotoromanzi, così Federico Palmaroli chiama i propri lavori, hanno condotto dinamiche complesse al viscerale, la voce della piazza che irrompe nel palazzo. Il satirico romano è un dissacratore di professione, nella vita e nella sua arte. Nelle vignette presidenti, politici, guide spirituali parlano in romanesco annullando definitivamente la distanza tra vertice e popolo. Sempre in romanesco Osho riporta dubbi e sensazioni della gente comune, quel che-non-può-essere-detto su temi più accorati dell’attualità politica italiana. Su “Le più belle frasi di Osho” Palmaroli ci offre la sintesi definitiva di un dibattito pubblico il più delle volte deludente, raccontando una nazione che per sua natura dissacra e diffida di tutto. Kissinger, annotava Montanelli, durante una sua visita a Roma diceva che non avrebbe parlato di politica italiana. Troppo complicata per lui da capire. Ecco, Kissinger non aveva a disposizione Le più belle frasi Osho altrimenti avrebbe avuto una visione più chiara. Federico Palmaroli ora è tornato in libreria con un nuovo libro “Carcola che ve sfonno” (Rizzoli), un compendio delle più belle vignette dell’anno appena trascorso. Il 2021 sarebbe dovuto essere di riscatto ma non è stata esattamente così. Gli abbiamo chiesto di farci un bilancio.      

Che anno è stato?
«È stato l’anno dell’arrivo di Draghi, le aspettative erano molto alte. Con i vaccini eravamo convinti che tutto fosse finito e saremmo usciti dalla pandemia. Me lo auguravo anche dal mio punto di vista, per la satira. Mi auguravo che si sarebbe potuto ricominciare a parlare di politica, dei temi sui quali mi piace esercitarmi. Speravo che sarebbero riemersi, invece questa situazione perdura. Ancora io stesso mi chiedo come cazzo faccio a trovare la voglia di fare satira sul Covid e su queste cose che ogni giorno si ripetono. Si continua a parlare di zone gialle, Green Pass e vaccini. Le battute vengono quando ogni giorno c’è un argomento nuovo».

La prima vignetta di Osho del 2021 era quella sulla variante epsilon. Cambiando lettera dell’alfabeto chiudi l’anno con la stessa vignetta…
«Neanche me la ricordavo questa vignetta, tanto stiamo passando in rassegna tutto l’alfabeto greco. Questo dà il senso a quanto dicevo, è cambiata la lettera. D’altronde chiamare le varianti con il nome del paese d’origine è politicamente scorretto, non ho capito perché. Prima c’era l’asiatica». 

Ripercorrendo le ultime stagioni sei stato testimone di passaggi politici importanti. Dal governo gialloverde, al giallorosso, all’avvento di Draghi.
«Il governo gialloverde è stato uno dei più bei momenti dal punto di vista della satira. Era un governo formato su un accordo che inevitabilmente avrebbe fatto pensare che ci sarebbero stati contrasti. Non era come adesso, o come nel Conte bis dove si cercava di appiattire tutto pur di rimanere in sella. Lì i contrasti emergevano palesemente. Era divertente per me. Nel Conte bis, pur essendo un governo eterogeneo, cercavano di far vedere che andavano d’accordo. Però poi è subentrata la pandemia, le dirette Conte… insomma tanto materiale che ora è sempre meno». 

Cosa è cambiato?
«Ora è più facile raccontare le cose dal punto vista del popolo. Il disagio che una persona prova in questa situazione, i vaccini e tutti i dubbi che ci sono. È più facile ma anche gioco forza. La scena è dominata da questo. Per me adesso, il più grande materiale arriva dal popolo. Raccontare il punto di vista del popolo piuttosto che fare la caricatura della politica». 

Però lo fai e come in un fiaba di Fedro hai la capacità di rendere “umano” chi umano non lo è per natura. Lui gli animali, tu i politici… avvicinandoli al popolo.
«L’avvicinamento della politica al popolo attraverso la satira avveniva meglio quando c’erano personaggi un pò più “alti” come nella Prima Repubblica. Prima c’era molta più distanza tra popolo ed eletti. Erano personaggi “sacrali”. Adesso c’è molto più livellamento tra eletto ed elettore. Anche grazie ai social che consentono un rapporto più diretto». 

Provi invidia per Forattini?
«Lo invidio. Anche se in quell’epoca per quello che faccio io – dei fotoromanzi dell’era della digitalizzazione – non sarebbe stato possibile. Lui ha operato in un periodo in cui uno scandalo, una debolezza, un paradosso, qualsiasi cosa potesse avvenire nella Prima Repubblica, poteva essere messo in evidenza per portare il politico sul terreno popolare. Questo almeno per la mia cifra comica. Per Forattini fare satira su quei personaggi aveva un effetto migliore. Andava ad assottigliare una distanza. Mi sarebbe piaciuto lavorare in quel periodo. Naturalmente lui usava meccanismi e una satira diversa dalla mia. Per lui, come per me, si trattava di toccare dei mostri sacri. Delle volte mi capita con il Papa». 

Già il Papa…
«Anche se questo Papa è un po’ diverso dagli altri. Il papato è comunque un’istituzione immodificabile, non vive le stagioni che vive la politica. La distanza tra papa e credenti rimane la stessa». 

Poi ci sono i politici “comuni”. A loro piace finire nelle tue vignette?
«Anche se c’è questo livellamento restano dei rappresentanti istituzionali. Il fatto che siano oggetto di satira li compiace, credo. Come quando un imitatore imita qualcuno. È una certificazione di importanza. Quando fanno qualche cazzata magari no; avere una cassa di risonanza non dev’essere piacevole, soprattutto quando hanno a che fare con una cassa con dei numeri importanti».

Si sono mai lamentati con te per questo?
«No, non ho mai avuto atteggiamenti ostili nei miei confronti. L’ostilità non arriva da loro, l’ostilità è nei supporter». 

I personaggi del momento che ti divertono di più.
«In questo momento sono pochi. È difficile anche dal punto di vista fotografico, della distanza, dei ranghi ridotti. La mascherina ad esempio copre il volto, è più difficile cogliere le espressioni. Ora la satira è più concettuale, basata ad esempio sui provvedimenti, piuttosto che su situazioni fisiche che si verificano in aula. Però, direi Figliuolo». 

Figliuolo personaggio satirico dell’anno?
«Sì. È un personaggio sui generis. È un militare prestato alla politica e a questa situazione emergenziale. È una caricatura: la divisa, le medaglie… quando succedono cose che esulano dai temi strettamenti politici o dal Covid – la vicenda Cirinnà ad esempio – per me è una manna dal cielo. Ma tra tutti quanti scelgo Figliuolo. Mi viene difficile dire Draghi». 

Perché con Draghi è difficile?
«Draghi non inciampa mai, almeno a livello di gaffes. Non inciampa perché non dice cazzate. È più facile non dire cazzate quando non ti esponi troppo». 

D’altronde lo hai sempre rappresentato come una sorta di “divinità”.
«Draghi incarna la divinità. Tutti lo osannano. Non si può contestare. Almeno così all’inizio. Poi ovviamente questo aspetto si è ammorbidito, anche perché nei fatti siamo ancora così. Prima c’era molta più fiducia. Lo vedo però anche come un dio minaccioso, non è solo la divinità che omaggi. È anche quella che non vuoi contraddire. Come nella copertina del mio ultimo libro “Carcola che ve sfonno”. Lui suscita un po’ di timore reverenziale». 

Quanto ti manca la coppia Salvini-Di Maio?
«Mi mancano tanto. Per me quel momento era bellissimo. Vai a vedere le foto della sedute alla Camera e al Senato: era un continuo di scatti che rappresentavano delle situazioni più congeniali, almeno per quello che faccio io. Per me la foto serve per rappresentare quello che sta succedendo. Sullo sfondo c’erano i continui contrasti tra loro e Conte, messo lì come un pupazzo per cercare di mediare tra i due. Era una situazione fantastica. L’ultima stagione veramente politica». 

Mattarella invece?
«Mattarella, come dicevamo prima, è quella figura di spessore politico che incarna ancora un ruolo sacrale. Far parlare il Presidente della Repubblica in romanesco è più divertente di quanto possa esserlo con un altro personaggio. Ho fatto diverse vignette. Mattarella non è uno che gesticola molto, viene un po’ difficile. Confido nella campagna per il Quirinale per avere qualche spunto di satira». 

Chi speri che sia il prossimo Presidente della Repubblica?
«Mi auguro sia Gentiloni. È stato il mio primo amore satirico. Ho iniziato a fare satira politica con lui e vederlo al Quirinale mi piacerebbe molto». 

Gli snodi più divertenti del 2021?
«Quando siamo usciti fuori dalla narrazione Covid. Vicenda Cirinnà sicuramente e gli Europei in Inghilterra, gli unici momenti. Era come bere una bibita dopo essere stato dieci ore sotto al sole». 

Nella vita reale chi è Osho?
«È uno che si trova investito di una “responsabilità” di soddisfare delle aspettative di buonumore. Ogni tanto però si trova nella difficile condizione di soddisfare quest’aspettativa avendo a sua volta un’altra aspettativa: l’esistenza di qualcos’altro che possa mettergli buonumore. È abbastanza faticoso».

Non porti solo buonumore. Hai una capacità di cogliere la profondità delle cose e sintetizzare, renderle semplici. Questo per molti fa di te uno dei migliori “editorialisti” italiani.
«È il mio modo di fare satira. Il potere della sintesi è sempre affascinante e cerco di andare sempre verso questa direzione. Il problema è che ci sono dei giorni in cui dici: «Questa settimana nun me va de fa’ ‘ncazzo». Non voglio fare niente, non voglio leggere niente. Però poi lo fai. Non perchè hai degli impegni professionali che non puoi disattendere ma perchè senti la necessità di fare contenuti anche per i social. Vengo da quel mondo. Mi sento in debito con chi mi ha portato in alto». 

I social hanno avuto un ruolo fondamentale nella vita professionale di Osho. Tu come li vedi? Sono democratici?
«Sì troppo. Io metterei una soglia di sbarramento. È una cosa brutta da dire perché la libertà di espressione è sacra. Vedi, nei social non esiste una libertà di espressione che soddisfa solo gli aneliti democratici – che sarebbe anche giusto. Lì la gente si trasforma. In persone anche mansuete nel momento in cui si ha la possibilità di scrivere ed avere una platea si innescano dei meccanismi nel cervello…». 

Quali sono i tuoi riferimenti? Da chi hai tratto ispirazione?
«Il mio modo di affrontare le cose è un po’ sornione e guascone, frutto del contesto in cui vivo. È Roma. Questo modo di affrontare certe situazioni è tipico di questa città. Ovvio che molto passa dagli aspetti caratteriali di una persona, comportarti in un certo modo, sembrare a volte un po’ superficiale. Capita però di vivere in profondità certe situazioni ma di avere lo scudo dell’ironia per cercare di schermarti. L’ispirazione maggiore l’ho tratta sempre dal contesto in cui sono cresciuto». 

D’altronde sarebbe impossibile pensare ad un Osho che parla in italiano, o in milanese. Trump che parla in romanesco, la dissacrazione è anche quella…
«Impossibile. Il romanesco dopotutto, aldilà delle polemiche degli ultimi mesi, è una parola troncata che possono capire tutti. Non è un’altra lingua come il sardo. Chi capirebbe?». 

Il tuo orientamento politico ha pesato nel tuo successo? Cosa è successo quando si è scoperto che Osho era di destra?
«Non quanto ho pensato che potesse pesare. Quando ha iniziato a girare la voce che non ero orientato al pensiero unico ho detto: «Vabbè Ok. Rimarrò nella nicchietta, non farò nulla di importante». Invece ho rotto uno steccato. Se vieni da questa parte devi essere bravo il doppio per accreditarti e cercare il più impossibile di essere imparziale. Cerco di esserlo sempre».

Una canzone per interpretare il momento in cui viviamo?
«”L’anno vecchio è finito ma qualcosa ancora qui non va”. Non potrei non citare Dalla.» 

Non cambierà un cazzo quindi?
«Mi trovo in una situazione di preoccupazione nel riunirmi con altre persone. Non solo a Capodanno perché non me ne frega un cazzo, ma di fare un vita sociale normale perché so – poi con tre dosi non ci preoccupiamo tanto di andare in ospedale – ma stare in isolamento è un problema. Sto 2022 sembra un restyling del 2021.

Su “Le più belle frasi di Osho” vedremo altre vignette di Figliuolo?
«Ahimé penso di sì».