Cultura

Lo spazio come forma d’arte e viceversa: inaugurata la mostra “Ambienti 1956-2010” al MAXXI

10
Aprile 2024
Di Simone Zivillica

Il primo passo quando si entra al MAXXI per una nuova mostra è quello, necessario, di perdersi una volta di più tra le linee della struttura stessa del complesso museale. Iniziato nel 1998 e ultimato nel 2010, il MAXXI è stato progettato da Zaha Hadid ed è, effettivamente, la prima opera in cui ci si imbatte quando si entra al museo. La nuova occasione per immergersi in questo capolavoro architettonico è la nuova mostra “AMBIENTI 1956 – 2010. Environments by Women Artists Il”. Una collettiva che rappresenta il capitolo successivo di “Inside Other Spaces. Environments by Women Artists 1956-1976”, ideato dalla Haus der Kunst nel 2023, il cui obiettivo era quello di esplorare il contributo fondamentale delle donne a quella forma d’espressione che s’inserisce nel confine, labilissimo, tra arte, architettura e design. Uno spazio in cui gli ambienti sono opere tridimensionali e immersive, che si attivano grazie all’interazione del pubblico e vengono completate dalla presenza umana.

Esattamente, quindi, ciò a cui ambisce l’opera di Zaha Hadid, che in questo caso si rende partecipe e protagonista di questa collettiva, in quanto creatrice di spazio da vivere e interpretare e in quanto già catalizzatore di un punto di vista, ovvero quello della Hadid stessa. Gli spazi del MAXXI sono caratterizzati da gallerie fluide che si susseguono e si intrecciano su più livelli sovrapposti. I solai sovente permettono di appendere opere e strutture, elevando e stravolgendo, la capacità architettonica, strutturale e quindi funzionale dell’edificio. A conferma di questo, all’interno della mostra alcuni degli spazi più significativi della struttura sono volutamente lasciati spogli delle opere, così da restituire, nella loro fluidità e originalità, gli spazi ideati anzitempo per ospitare l’arte, e quindi creandone altrettanta. Proprio uno dei curatori della mostra, Andrea Lissoni, chiarisce infatti che «gli ambienti hanno preso forma in un lungo momento di sperimentazione, di apertura, ma anche di immersione in un futuro visionario, tanto tecnologico, rivendicativo, quanto escapista».

La mostra al MAXXI, quindi, prosegue la ricerca dell’istituzione tedesca e ne amplifica la cronologia originaria (prima ferma al ventennio 1956 – 1976) spingendosi fino al 2010, anno del completamento dell’architettura del Museo progettato da Zaha Hadid. A Judy Chicago, Lygia Clark, Laura Grisi, Aleksandra Kasuba, Léa Lublin, Marta Minujín, Tania Mouraud, Nanda Vigo, Tsuruko Yamazaki si aggiungono in questo secondo capitolo Micol Assael, Monica Bonvicini, Zaha Hadid, Kimsooja, Christina Kubisch, Nalini Malani, Pipilotti Rist, Martha Rosler e Esther Stocker.

Secondo Francesco Stocchi, direttore artistico del MAXXI e curatore della mostra, questa collettiva è fisicamente immersiva, e vuole essere una risposta alle esperienze artistiche immersive solo digitalmente che, però, rappresentano un continuum più con il mondo cinematografico che non con quello dell’arte contemporanea. Sempre Stocchi sottolinea che «la mostra rappresenta per le artiste, così come per il pubblico, un’occasione unica per lavorare con una materia viva, in evoluzione, rispetto alla definizione stessa di un’opera finita. Una scultura, un dipinto, un disegno o un film per loro natura sono “chiusi”. Al contrario l’ambiente, per definizione e per le interazioni che ha, è vivo e questa vitalità si celebra con l’accoglienza e l’incontro con lo spettatore». A evidenziare questo concetto, tra gli altri, le sensazioni fisiche e psicologiche suscitate dall’opera di Laura Grisi “Vento di Sud Est velocità 40 nodi” che coglie di sorpresa il visitatore con un forte flusso d’aria improvviso in una stanza buia, ma anche le “Utopie” della XIII Triennale di Milano: opera realizzata da Lucio Fontana e Nanda Vigo che consiste in uno spazio rilassante dove ci si può sdraiare avvolti da un soffice ambiente rosso rubino.

Il senso ultimo di una mostra fatta non di quadri o sculture ma di installazioni vivibili, esperibili, risiede proprio nello sforzarsi di comprendere l’interpretazione che di quello spazio ha dato l’artista che l’ha realizzato. Eppure, il passo immediatamente successivo, quasi contemporaneo, è trovare la propria, di interpretazione, mentre quello spazio lo si sta effettivamente abitando, vivendo. Ed ecco che l’opera d’arte prende vita veramente solo nel momento in cui il pubblico l’attraversa, in un atto transeunte che è sì intellettuale, ma innanzitutto fisico. Due livelli che sicuramente possono coesistere ma che hanno anche la possibilità di vivere scissi, fino ad arrivare a cogliere una terza dimensione dell’opera, quella ludica. Impossibile, infatti, non uscire con un sorriso dalla colorata e instabile “Penetración / Expulsión” di Lea Lublin che tratta il tema della riproduzione umana attraverso diversi elementi tra cui un tunnel che ricorda il cordone ombelicale. Ma anche estasiati dai mille e più suoni di “The Bird Tree”, l’importante installazione sonora di Christina Kubisch: un grande albero composto da cavi elettrici che permette di ascoltare canti di uccelli da tutto il mondo. O, ancora, stupiti dalle sensazioni oniriche, quasi felliniane, di Red di Tsuruko Yamazaki, costituita da una tenda in vinile rosso sospesa che ricorda le tradizionali zanzariere utilizzate in Giappone.

Evidente, e sempre necessario, il leitmotiv del movente della mostra: un collettivo tutto al femminile per esplorare l’interpretazione dello spazio – e dello spazio nell’arte, e viceversa – dell’occhio della donna. Ne è orgoglioso, infatti, il Presidente della Fondazione MAXXI Alessandro Giuli: «mi rende particolarmente fiero che la prima grande mostra dell’anno sia una collettiva al femminile, che riconosce e celebra la centralità delle artiste in questa ricerca e nella storia dell’arte in generale». Approfondisce il significato intrinseco della scelta del femminile, Marina Pugliese, curatrice della mostra insieme al già citato Lissoni e Stocchi: «Seppur nel contesto di una storia lacunosa, la mancata documentazione degli ambienti realizzati da artiste donne attesta una doppia subalternità. Una subalternità resa paradossale dal fatto che in occasioni espositive di rilievo e in ambiti geografici diversi, svariate artiste hanno realizzato ambienti complessi, connotati da stratificazioni di significati, talvolta imperniati su questioni politiche e tuttavia oggetto di riscontro di pubblico e di stampa. Altri spazi, appunto».

Testi, foto e video a cura di Simone Zivillica