Cultura
Dopo il Muro, il vuoto: la sinistra e l’Ucraina come specchio
Di Ilaria Donatio
Ogni anniversario della caduta del Muro di Berlino riapre una ferita che, per una parte della sinistra italiana, non sembra ancora rimarginata. Non è solo una questione di memoria o di nostalgia: è il senso di un lutto ideologico mai davvero elaborato. Come se la fine del comunismo avesse lasciato dietro di sé un vuoto identitario che nessun “dopo” è riuscito a riempire.
A prevalere, ancora oggi, è la malinconia per ciò che poteva essere “il prima”, più che la rabbia per ciò che non è stato “il dopo”. Fa più male il fallimento dell’utopia socialista che la mancata democratizzazione della Russia post-sovietica. E questa ferita culturale si riflette, con sorprendente coerenza, nel modo in cui una parte della sinistra guarda all’Ucraina.
Dal 2022, l’aggressione russa ha rimesso in discussione certezze e linguaggi che sembravano consolidati. Eppure, proprio tra chi si dice pacifista e progressista, la guerra ha rivelato un’ambiguità profonda: la difficoltà di riconoscere in una nazione aggredita il diritto alla difesa, e in Mosca l’erede di un potere autoritario da condannare senza esitazioni.
Non si tratta di filoputinismo esplicito, ma di una forma più sottile di autoinganno: la tentazione di leggere il conflitto attraverso le categorie del “noi” e “loro”, come se l’imperialismo potesse essere accettabile a seconda di chi lo esercita.
In questo sguardo incerto c’è il riflesso di un’irrisolta nostalgia per un ordine del mondo che non esiste più. Un mondo in cui l’Occidente era sinonimo di sopraffazione e ogni rivolta “anti” portava con sé una promessa di emancipazione.
Ma oggi il campo non è più quello: a Kyiv non si combatte per sostituire un impero con un altro, bensì per difendere la possibilità stessa di scegliere: una lingua, una cultura, una democrazia, per quanto imperfetta.
Il paradosso è che proprio una parte di chi si è formato sui valori dell’antifascismo e della libertà tende a relativizzare un’aggressione che nega entrambi. Come se il trauma del 1989 avesse congelato la capacità di distinguere tra potere e popolo, tra critica all’Occidente e cecità verso le dittature. E così la sinistra, quella più legata a una visione “storica” del conflitto, finisce per apparire distante dalla realtà del presente, intrappolata in un lessico che non spiega più il mondo.
L’Ucraina, in questo senso, è diventata uno specchio. Non solo della brutalità russa, ma anche delle ambiguità occidentali, delle esitazioni europee e delle contraddizioni interne alle culture politiche che dovrebbero difendere la libertà. Mentre i muri fisici sono crollati, quelli mentali resistono: diffidenza, disincanto, incapacità di credere che la democrazia – altrove come da noi – meriti ancora di essere difesa.
A trentasei anni da quel 9 novembre, il Muro non divide più Berlino. Ma continua, in forme più sottili, a separare una parte della sinistra europea dal proprio tempo. E a ricordarci che la storia non finisce mai davvero: semplicemente, cambia i confini della nostra coscienza.





