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Roccella: «Autonomia economica e sicurezza. Ecco la strategia per proteggere le donne»

04
Dicembre 2025
Di Ilaria Donatio

(Articolo pubblicato su L’Economista, inserto de Il Riformista)

In Italia il benessere economico delle donne resta fragile come un equilibrio di conti appena in pari. Basta un’assenza dal lavoro, una relazione sbilanciata, un reddito diseguale per farlo crollare. La violenza di genere si manifesta spesso proprio qui: nel controllo delle risorse, nella limitazione dell’autonomia, nella dipendenza forzata. Secondo l’Istat, oltre una donna su quattro ha subìto violenza economica almeno una volta nella vita; e solo il 59% dispone di un reddito continuativo, contro il 72% della media UE.

Il gender safety gap non misura solo la sicurezza fisica, ma la possibilità stessa di costruire un futuro economico indipendente. È in questa faglia ancora aperta – dove politiche del lavoro, welfare, fiscalità e prevenzione si intrecciano – che si concentra il confronto con la ministra Eugenia Roccella, chiamata a definire priorità e misure per colmare un divario che pesa sulla crescita e sulla tenuta sociale del Paese.

Ministra, in Italia si parla molto di gender pay gap, molto meno di gender safety gap. Qual è l’impatto economico della violenza sulle donne che la politica continua a ignorare?
«L’indipendenza, l’autonomia economica, la realizzazione delle proprie ambizioni, in una parola l’empowerment delle donne, hanno molto a che fare con la violenza, in diversi modi. Perché possono rappresentare una forma di prevenzione, rendendo le donne libere di scegliere, e perché possono aiutare una donna a uscirne. Per questo stiamo intervenendo in due direzioni: da un lato potenziando i sostegni economici alle vittime, cosa che abbiamo fatto rendendo strutturale e aumentando il Reddito di libertà, creando un fondo strutturale di 3 milioni l’anno per l’inserimento professionale, agevolando l’assunzione delle donne con lesioni permanenti a seguito di violenza, prevedendo un più facile accesso all’Assegno di inclusione; dall’altro, a monte, investendo sul lavoro femminile, sulla conciliazione, su pari opportunità sostanziali».

Ogni anno la violenza di genere erode una quota di Pil equivalente a una manovra economica media. Ritiene che il Mef e il governo debbano cominciare a trattare la violenza come un vero “capitolo di spesa” nazionale?
«È difficile considerare la lotta alla violenza come un capitolo di spesa, anche se capisco l’ottica che proponete. Io però vedo le nostre misure piuttosto come un investimento nella difesa della libertà femminile. E voglio ricordare che in questa legislatura sono state raddoppiate da 40 a 80 milioni le risorse annuali per centri antiviolenza e case rifugio, sono state potenziate le iniziative di formazione e prevenzione, è stata promossa la sensibilizzazione soprattutto per le giovani generazioni. Ovviamente il motivo principale per cui combattiamo la violenza non sono le sue implicazioni economiche ma innanzitutto la difesa della vita, della sicurezza, della libertà delle donne, ma non c’è dubbio che la violenza sia tanto direttamente quanto indirettamente un ostacolo allo sviluppo del nostro Paese».

In Italia, come in tutta Europa, circa una donna su tre subisce violenza: significa che ogni azienda di medie dimensioni ha decine di dipendenti potenzialmente coinvolte. Le imprese italiane sono consapevoli dell’impatto sulla produttività, sull’assenteismo e sul turn-over? Cosa dovrebbe cambiare nelle loro policy interne?

«Quella contro la violenza non è una battaglia che si vince da soli. Per questo, fin dall’inizio abbiamo favorito un’alleanza non solo tra gli schieramenti politici, ma anche tra istituzioni, associazionismo, territori, professioni, mondo del lavoro e dell’impresa. E devo dire che stiamo riscontrando una crescente sensibilità, un coinvolgimento sempre maggiore, e non solo per ragioni di produttività. La consapevolezza diffusa è un passo essenziale per un cambiamento culturale».

La violenza non comincia quasi mai con un’aggressione fisica, ma con il controllo economico. In Italia solo il 30 per cento delle donne è intestataria di un conto corrente, spesso cointestato. Quali strumenti concreti il ministero intende promuovere per garantire autonomia finanziaria e prevenire il controllo economico?

«Questo è un elemento essenziale. La violenza economica è più subdola e meno eclatante di quella fisica, ma spesso la accompagna o la precede. Per questo è importante un’azione di consapevolezza per superare stereotipi e limitazioni, che il ministero porta avanti ad esempio insieme all’Associazione delle Banche Italiane, con cui abbiamo un protocollo d’intesa e numerose iniziative. Ma è importante anche il lavoro che stiamo compiendo sul fronte occupazionale, come sulla promozione delle materie Stem, e soprattutto sul superamento della penalizzazione lavorativa che ancora si registra a causa della maternità. Ed è importante l’aiuto che si può dare alle donne per ripartire da se stesse e dalle proprie potenzialità. Ad esempio, oltre alle misure già citate, un progetto che abbiamo portato a compimento e a cui tengo molto è il Microcredito di libertà, realizzato in collaborazione con l’Ente per il microcredito, la Caritas e altre realtà, che offre alle donne vittime di violenza sia un sostegno nel bisogno sia una linea di credito per avviare un’attività economica propria».


L’Italia ha uno dei tassi più bassi di occupazione femminile in Europa e il più alto tasso di uscita dal lavoro dopo la maternità. Quanto pesa, secondo lei, la dimensione dell’insicurezza – domestica, giudiziaria, economica – sulla scelta delle donne di non restare nel mercato del lavoro?

«C’è ancora molto da fare ma vorrei sottolineare un piccolo grande passo avanti, con l’occupazione femminile che in questa legislatura ha fatto registrare un doppio record, sia in termini assoluti con lo sfondamento del tetto delle dieci milioni di donne occupate, sia in percentuale con il superamento del 54 per cento. Ovviamente non è un punto di arrivo, ma è un risultato significativo e incoraggiante per andare avanti. Sono fondamentali, in questo senso, le misure adottate per la conciliazione, come il potenziamento dei congedi parentali e dei congedi per la malattia dei figli, il finanziamento dei centri estivi e l’apertura estiva delle scuole, l’aumento del rimborso per l’asilo nido, gli strumenti di flessibilizzazione per il rientro dalla maternità, la decontribuzione e il bonus per le mamme lavoratrici. Ed è fondamentale anche la consapevolezza delle imprese, testimoniata dal numero di aziende che hanno già ottenuto la certificazione per la parità di genere prevista dal Pnrr: abbiamo già decuplicato il target di aziende certificate previsto per il giugno 2026. L’obiettivo di tutto questo non è solo aiutare concretamente la condizione di ogni singola donna che lavora, ma anche favorire ambienti lavorativi accoglienti verso la maternità. Pari opportunità non significa omologazione, ma evitare penalizzazioni a fronte di situazioni differenti».

Gli investitori internazionali guardano ormai ai parametri ESG. Crede che la capacità di un Paese di ridurre la violenza sulle donne diventerà un indicatore di competitività e attrattività economica?
«È possibile. Intanto è certamente un indicatore di giustizia, di rispetto, di libertà, di maturità sociale. E una società più giusta, più aperta alla libertà femminile, è ovviamente anche una società più vitale e più competitiva».

Quali saranno le prossime iniziative del ministero – sul fronte lavoro, autonomia economica, welfare, formazione – per trasformare la tutela delle donne in una politica industriale e non solo sociale?

«Intanto siamo impegnati con l’esame parlamentare della nuova legge di bilancio, che così come le precedenti prevede oltre un miliardo e mezzo di finanziamenti su famiglia, conciliazione, pari opportunità, lavoro femminile. E stiamo completando con UNI il tavolo di lavoro per il varo di una nuova prassi di riferimento nazionale per le aziende attente alla conciliazione. L’alleanza con il mondo del lavoro e dell’impresa è fondamentale».

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