Cultura

Nicola Pietrangeli, l’ultimo gentiluomo della terra rossa

01
Dicembre 2025
Di Ilaria Donatio

Nicola Pietrangeli se n’è andato a 92 anni, e con lui scompare una figura che ha incarnato per decenni il tennis italiano. Non solo un campione, ma il volto di un’epoca: quella delle racchette di legno, della terra rossa come casa naturale, di un modo di stare in campo che univa tecnica e leggerezza.

La sua storia comincia lontano da Roma, a Tunisi, dove nacque nel 1933 da padre italiano e madre russa. Arrivò in Italia da ragazzo, quasi per necessità, e in quella città trovò il luogo in cui diventare ciò che sarebbe stato per sempre: il primo grande fuoriclasse del nostro tennis. Al Foro Italico oggi porta il suo nome uno stadio, lo Stadio Pietrangeli, a ricordare non solo i trofei vinti, ma un certo stile che gli appassionati più anziani riconoscono al primo sguardo.

Sul campo, Pietrangeli ha scritto la storia. Due Roland Garros consecutivi, nel 1959 e nel 1960, che lo hanno reso il primo italiano a vincere uno Slam. Si racconta che dopo il trionfo del ’60, un dirigente federale gli chiese come avesse fatto a ripetersi. Lui, con la sua ironia, rispose: «Bastava giocare meglio degli altri». Era il suo modo di sdrammatizzare ciò che per tutti gli altri appariva straordinario.

Vinse anche due volte gli Internazionali d’Italia, trasformando il Centrale del Foro Italico in una specie di salotto dove sembrava sempre a casa. Raggiunse il numero 3 del mondo nelle classifiche ufficiose dell’epoca, quando i ranking non erano numeri digitali ma riconoscimenti costruiti col rispetto degli avversari.

E – forse il dato più impressionante – in Coppa Davis lasciò un’eredità che nessuno ha ancora cancellato: 164 incontri disputati, 120 vittorie. Un record che, considerati i calendari odierni, ha qualcosa di irripetibile. Numeri che spiegano la sua statura meglio di qualsiasi definizione.

Ma per chi lo ha conosciuto o solo ascoltato nelle interviste, Pietrangeli era anche un carattere: ironico, diretto, a volte spigoloso, sempre pronto a una battuta. Un uomo che non si è mai tolto di dosso la leggerezza con cui entrava in campo. Dopo il ritiro diventò capitano dell’Italia e guidò la squadra alla storica vittoria della Davis del 1976, a Santiago del Cile: un capitolo che ha segnato un’intera generazione.

Negli ultimi anni continuava a raccontare quel tennis con un misto di affetto e lucidità. Sapeva che il mondo era cambiato, che la potenza aveva preso il posto del tocco, ma non smetteva di rivendicare la bellezza di un gioco fatto di costruzione, pazienza e creatività. Era, in fondo, la sua cifra.

Con la sua morte, il tennis italiano perde non solo un campione irripetibile, ma l’ultimo grande testimone di una stagione che non tornerà più. Resta l’eredità di un uomo che ha aperto la strada a tutti quelli che sono venuti dopo. Un riferimento, un punto d’origine. E quella naturale eleganza che, ancora oggi, molti considerano parte del nostro Dna tennistico e che porta il suo nome.