Salute

La crisi epistemica italiana e “La Bussola della Scienza”: il dibattito e le videointerviste

25
Novembre 2025
Di Ilaria Donatio

“La salute non analizza se stessa e neppure si guarda nello specchio. Solo noi malati sappiamo qualche cosa di noi stessi”. Così scriveva Italo Svevo nella Coscienza di Zeno. E forse vale anche per la nostra epoca, che fatica a riconoscersi e a distinguere ciò che è reale da ciò che è solo verosimile. Viviamo immersi in una crisi epistemica: un tempo in cui il rumore dell’informazione sovrasta i fatti, la disinformazione corre più veloce della conoscenza e i saperi esperti vengono continuamente marginalizzati.

Gli ecosistemi digitali amplificano le emozioni, semplificano le narrazioni, costruiscono echo chamber che rassicurano ma non spiegano. Così perfino la verità più documentata fatica a emergere, compressa tra la lentezza della scienza e la velocità con cui si formano le opinioni pubbliche. Il risultato è una erosione della fiducia nella scienza, nella medicina, nelle istituzioni. E questa fragilità culturale, in Italia, ha numeri precisi.

Un limite strutturale, poi, è rappresentato dagli analfabeti funzionali, che rappresentano circa il trenta per cento della popolazione. Non si tratta di persone incapaci di leggere, ma di cittadini che faticano a comprendere testi complessi, stabilire nessi logici, interpretare correttamente informazioni numeriche o scientifiche. È una vulnerabilità cognitiva che espone il Paese a un cortocircuito costante tra emozione, paura e verosimiglianza.

È con questo retroterra che nasce “La Bussola della Scienza. Orientarsi fra (falsi) miti e post-verità”, il dibattito promosso da Healthcare Policy e Formiche nella Sala Igea di Treccani: un tentativo di ricucire lo strappo tra conoscenza e cittadinanza e interrogarsi su come si possa ricostruire fiducia.

Nel primo panel è emerso un dato allarmante: secondo l’OCSE, solo il cinque per cento degli italiani risponde correttamente ai test sulle competenze scientifiche, mentre nei Paesi dell’Europa settentrionale la percentuale supera il sedici per cento. Un divario che non riguarda la quantità di fake news circolanti, ma la capacità di riconoscerle, valutarle e gestirle.

Su questo terreno si è inserito l’intervento di Gilberto Corbellini, professore ordinario di storia della medicina e docente di bioetica alla Sapienza di Roma. Corbellini ha ricordato che l’Italia non è più esposta di altri Paesi alla cattiva informazione: il vero problema è che «non sappiamo gestirla» prima che diventi scontro politico ed emotivo. E quando questo accade, ha osservato, «qualsiasi voce può sembrare legittimata quanto quella di chi studia davvero», amplificando una fragilità culturale già profonda.

Il secondo panel ha spostato l’attenzione sul tema della formazione, considerata decisiva per creare gli “anticorpi culturali” contro la disinformazione. Per Vilberto Stocchi, rettore dell’Università Telematica San Raffaele di Roma, la disinformazione «agisce come un agente patogeno»: si insinua dove i legami di fiducia sono più deboli, replica nei vuoti informativi e produce effetti sistemici profondi.

La risposta, ha spiegato, deve intervenire lungo tre direttrici: quella dei «cittadini», che hanno bisogno di strumenti per orientarsi nell’infosfera; quella dei «professionisti della salute e della ricerca», chiamati a un aggiornamento costante; e quella della «formazione continua», oggi troppo trascurata. Basti pensare che solo il 17 per cento dei medici di base è pienamente consapevole del ruolo dell’attività fisica come determinante di salute. Una lacuna che si riflette, a cascata, sulla qualità dell’informazione trasmessa alla popolazione.

Sul terreno dell’alimentazione, il rapporto tra verità e percezione appare ancora più fragile. Laura De Gara, Presidente del Corso di Laurea Magistrale in Scienze dell’Alimentazione e della Nutrizione Umana e Delegata del Rettore per il progetto One Health al Campus Bio-Medico di Roma, ha ricordato come «le fake news sull’alimentazione siano pervasive perché parlano al corpo e alla paura», intercettando ansie profonde e modelli distorti di benessere. Secondo le indagini citate, l’ottanta per cento degli italiani identifica la salute nella cura del corpo e oltre la metà dà valore alla qualità degli alimenti che sceglie.

Sul versante politico, l’onorevole Ylenja Lucaselli (FdI), componente della Commissione Bilancio della Camera, ha richiamato l’attenzione sulla sovraesposizione mediatica degli scienziati durante la pandemia: una condizione che ha reso più difficile un dialogo genuino tra comunità scientifica e istituzioni. «La sovraesposizione degli scienziati non ha aiutato il confronto tra politica e ricerca», ha osservato, ricordando che il compito della politica è trasformare le esigenze del mondo scientifico in provvedimenti concreti.

A chiudere il confronto è stata la voce di Valentina Mantua, Associate Director for Regulatory Science della U.S. Food and Drug Administration, intervenuta a titolo personale. Le società – ha spiegato – non diventano libere scegliendo verità perfette, ma scegliendo «verità autentiche», quelle che resistono alle scorciatoie proprio perché poggiano su un patto di fiducia che si rinnova ogni giorno. Un patto fragile ma indispensabile, che si mette alla prova soprattutto quando «arriva la paura». È allora che la scienza deve avanzare, prendere parola, riconquistare spazio. Andando incontro ai cittadini, senza attendere che siano loro a cercarla.

Riprese e montaggio a cura di Simone Zivillica