Cultura
Moda, i brand italiani in Cina: la nuova strategia che serve
Di Lorenzo Berna
Per affermarsi in Cina, un brand occidentale non può più limitarsi a portare i propri prodotti oltre confine: deve costruire con pazienza una reputazione credibile, lavorare con attenzione sulla propria immagine, innescare un passaparola digitale favorevole e, soprattutto, adattare le proprie strategie al peculiare sistema tecnologico e comunicativo cinese. È una regola che vale per tutti, inclusi i marchi italiani dell’alta moda, da sempre considerati tra i simboli più luminosi del nostro Paese. Negli ultimi anni, però, il mercato del lusso cinese si è fatto più esigente, più maturo rispetto al passato, e diversi player europei – italiani e francesi – stanno sperimentando rallentamenti che evidenziano quanto il contesto sia cambiato. Essere presenti non basta più: serve una proposta distintiva, capace di dialogare davvero con il consumatore locale.
In questo scenario si inseriscono anche le recenti osservazioni di Luca Sburlati, presidente di Confindustria Moda, che ha messo in evidenza il calo dell’export della filiera nei primi sei mesi del 2025, una contrazione attorno al 4%, mentre l’import è cresciuto del 6%, con la Cina a segnare da sola un sorprendente +18%. Un dato che lascia intuire quanto forte sia la pressione competitiva esercitata dai prodotti del Dragone e quanto la dinamica degli scambi si stia rapidamente modificando. Il lusso, tuttavia, segue logiche proprie e non risponde sempre in modo uniforme ai mutamenti del mercato: ogni marchio vive la Cina in modo diverso, e i risultati non sono mai sovrapponibili.
Il contesto generale dimostra che la Cina resta un mercato imprescindibile, ma di complessità crescente. I consumatori di fascia alta, soprattutto quelli giovani, aspettano molto dal brand che scelgono: pretendono autenticità, qualità percepibile, coerenza narrativa e una capacità di parlare al presente, non solo al passato glorioso del marchio. L’heritage italiano continua ad avere un valore enorme, ma non è più un argomento sufficiente da solo ad attirare un pubblico che ormai conosce bene la moda internazionale e ne valuta ogni aspetto con uno sguardo critico. L’identità storica funziona solo se viene tradotta in linguaggi contemporanei e in esperienze d’acquisto coerenti con i codici culturali cinesi.
Le difficoltà registrate dall’export non sono soltanto un fisiologico assestamento: rivelano che l’Italia deve confrontarsi con un mercato che cambia più velocemente della sua capacità di adattamento. I segmenti del menswear e dell’accessorio, tradizionalmente solidi, mostrano segnali di stanchezza verso la Cina, mentre sul fronte opposto cresce la presenza di prodotti cinesi in Europa, a testimonianza della maturazione industriale del Paese. Questo doppio flusso mette in discussione il modello tradizionale in cui l’eccellenza italiana era automaticamente riconosciuta e premiata, rendendo evidente la necessità di un riposizionamento strategico.
In Cina la reputazione di un marchio si costruisce soprattutto online, in un ecosistema digitale dove le interazioni non sono semplici strumenti di promozione, ma veri momenti di relazione. Piattaforme come WeChat e Douyin, i live-streaming, le recensioni, le micro-comunità digitali e i mini-programmi modellano la percezione del brand molto più di quanto possa fare un tradizionale investimento pubblicitario. Una scelta sbagliata, un contenuto fuori contesto, una mancanza di ascolto: tutto può generare eco immediate e difficili da controllare. L’eReputation, per i marchi del lusso, è diventata parte integrante del valore stesso del brand.
Altrettanto decisivo è l’adattamento alle infrastrutture tecnologiche locali. La Cina non è semplicemente un mercato diverso, è un ambiente digitale a sé stante, con regole, strumenti e un’estetica propria. Dal modo in cui si cerca un prodotto, ai sistemi di pagamento, fino ai tempi di consegna e alle modalità di interazione con il customer service, ogni fase del percorso d’acquisto richiede un’impostazione costruita su misura. I marchi che hanno compreso questa dinamica e hanno investito in una presenza digitale realmente localizzata, integrata con il retail fisico e supportata da partner locali, continuano a ottenere risultati robusti nonostante il rallentamento generale.
In un panorama così competitivo, il vantaggio non nasce più dall’essere un grande nome, ma dalla capacità di mantenere vivo, attuale e riconoscibile quel nome, senza snaturarlo e allo stesso tempo senza trasformarlo in un monumento immobile. Il Made in Italy rimane un asset potente, ma oggi deve dialogare con un consumatore più mobile, più informato e meno disposto a “fidarsi sulla parola”. Il futuro dei marchi italiani in Cina dipenderà dalla loro abilità nel radicarsi culturalmente senza perdere identità, nell’aggiornare il proprio linguaggio senza cancellarne la memoria, e nel farsi interpreti di un Paese che, più di altri, premia chi sa ascoltare e rischia di ignorare chi resta fermo sulle proprie certezze.





