Una conversazione informale tra professionisti delle relazioni istituzionali, provenienti da diversi Paesi europei, è stata per chi scrive fonte d’ispirazione per fissare alcuni punti dello scenario politico italiano.
Chi scrive ha infatti avuto l’occasione di confrontarsi con una decina di colleghi – esperti, aggiornati, profondamente radicati nei rispettivi contesti nazionali – sui temi della stabilità politica, della transizione delle “destre” e dell’evoluzione delle leadership nelle varie nazioni d’Europa.
Quando è arrivato il momento di parlare dell’Italia, e in particolare di questi tre anni di governo Meloni, è emersa una sorpresa: molti non avevano pienamente percepito la traiettoria moderata e istituzionale che la Presidente del Consiglio ha seguito sin dalla sua vittoria elettorale del 2022.
L’immagine che ancora permane all’estero, seppure molto più sfumata rispetto al passato, è ancora quella di un partito “post-fascista” che ha assunto responsabilità di governo senza aver mai del tutto rotto con le proprie radici. Eppure, come si è provato a spiegare nel corso del confronto, il percorso di Fratelli d’Italia e di Giorgia Meloni è tutto fuorché improvvisato.
È parte di un’evoluzione politica trentennale iniziata negli anni ’90, con la svolta di Fiuggi voluta da Gianfranco Fini e con il passaggio dal Movimento Sociale Italiano ad Alleanza Nazionale, proseguita poi con le esperienze di governo nei primi anni 2000 all’interno delle maggioranze guidate da Berlusconi. Una lenta e progressiva legittimazione all’interno del sistema costituzionale, rafforzata per Meloni da ruoli istituzionali di rilievo già in giovane età: vicepresidente della Camera nel 2006, Ministro della Gioventù nel 2008.
Chi ha guardato la politica italiana con attenzione ha potuto vedere questi passaggi. Chi l’ha guardata con distacco o, peggio, pregiudizio, no.
Certo, il passato simbolico del partito non è scomparso e continua a esercitare un’eco, soprattutto in chi osserva da fuori e riduce l’identità di FdI a una formula ideologica. Ma nei fatti, e nelle politiche, la postura di governo è stata più moderata, più europeista e più occidentalista del previsto, fino ad essere criticata da alcuni osservatori per eccessivo conservatorismo, se non addirittura di immobilismo.
La parte più interessante della conversazione, però, è arrivata nel confronto con le altre destre europee.
Perché se in Italia quella transizione verso l’istituzionalità c’è stata, in Francia, Germania e – in prospettiva – nel Regno Unito, questo processo non è ancora iniziato. I partiti più a destra dell’arco parlamentare, pur avendo guadagni elettorali consistenti, non sono mai entrati in coalizione con forze moderate. Né hanno cercato di farlo. I partiti conservatori tradizionali, da parte loro, hanno mantenuto un cordone sanitario rigido, spesso più per paura del costo reputazionale che per vero calcolo politico.
Il risultato è che il giorno in cui queste formazioni dovessero davvero vincere le elezioni e andare al governo, rischierà di essere uno shock molto forte da gestire, tanto per le istituzioni quanto per i mercati e le relazioni internazionali.
In questo confronto, l’Italia si è rivelata più matura e meno traumatica di quanto alcuni colleghi europei si aspettassero. E questa constatazione, condivisa quasi con stupore, ha portato a una riflessione più ampia: forse, il nostro Paese è davvero arrivato al culmine di quel lungo ciclo aperto con la crisi di sistema del 1992-1993, passando per l’alternanza imperfetta della Seconda Repubblica, fino ad approdare a una forma di stabilità istituzionale che oggi non ha eguali in Europa.
Un governo che dura tre anni senza fratture, in una coalizione plurale, con pieno sostegno parlamentare, interlocuzioni internazionali consolidate, equilibrio nei rapporti con Bruxelles, e – sì – anche una elevata sobrietà nella gestione della politica interna, non è più l’anomalia italiana, ma la possibile nuova normalità europea.
Mentre altrove si teme l’irruzione della protesta nei palazzi del potere, in Italia quella protesta è già passata attraverso l’arco costituzionale, si è fatta governo, e – almeno per ora – ha scelto la via della continuità.
Questo non vuol dire che non ci siano rischi o criticità. Ma significa che per una volta, chi vuole capire dove va l’Europa o, meglio, dove dovrebbe andare, farebbe bene a guardare proprio a Roma.





