Salute

Social Freezing: da privilegio a diritto, il dibattito arriva in Parlamento

14
Novembre 2025
Di Marta Calderini

Il dibattito sul social freezing arriva finalmente in Parlamento e lo fa incrociando tre piani diversi – legislativo, politico e sociale – in un momento in cui l’Italia registra un nuovo minimo storico di nascite e un tasso di fecondità fermo a 1,18 figli per donna nel 2024, lontanissimo dalla soglia di sostituzione generazionale.

Al centro di questa nuova iniziativa c’è la deputata del Movimento 5 Stelle Carmen Di Lauro, che ha depositato alla Camera la proposta di legge n. 2287 sulla conservazione delle cellule riproduttive per la preservazione della fertilità maschile e femminile e si prepara a interrogare il ministro della Salute Orazio Schillaci sul tema della crioconservazione degli ovociti per motivi non medici. In parallelo, Di Lauro sostiene la campagna “Congeliamo gli ovuli, non i diritti”, la petizione promossa dal collettivo “Stiamo Fresche” che chiede la gratuità del social freezing per tutte le donne e le persone con utero dai 18 ai 40 anni e un riconoscimento pieno della preservazione della fertilità come diritto di prevenzione e autodeterminazione.

La crioconservazione degli ovociti – egg freezing – è una tecnica che consente di prelevare gli ovuli dopo una stimolazione ormonale controllata, vitrificarli e conservarli a temperature bassissime in azoto liquido, per anni o decenni, in biobanche specializzate. In un secondo momento, quegli ovociti potranno essere scongelati, fecondati in vitro e trasferiti in utero come embrioni nell’ambito di un percorso di procreazione medicalmente assistita (PMA). Dal punto di vista biologico, ciò che si preserva non è tanto l’utero – che resta in larga parte funzionale anche in età avanzata – quanto la qualità degli ovociti, che invece declina rapidamente dopo i 35 anni.

Quando questa procedura viene utilizzata non per proteggere la fertilità da una malattia (ad esempio un tumore), ma per ragioni “sociali” si parla di social freezing. Lo stesso termine ricorre nella relazione introduttiva della proposta di legge Di Lauro, che elenca tra le motivazioni più frequenti l’assenza di un partner, i tempi delle carriere e la necessità di rinviare il progetto genitoriale fino a condizioni economiche più solide.

Oggi in Italia questo strumento è accessibile solo a una minoranza. Secondo i dati riportati nella petizione, un ciclo di crioconservazione può costare fino a 6000 euro per ciclo, a cui si somma un canone annuale di conservazione fra i 100 e i 300 euro. Il Servizio sanitario nazionale copre le spese quasi esclusivamente nei casi di oncofertilità: donne under 40 che devono affrontare chemioterapia, radioterapia o altre terapie che mettono a rischio la funzione ovarica. Tutte le altre – comprese le tre milioni di italiane che soffrono di endometriosi – devono pagare di tasca propria o rinunciare.

È su questo privilegio che Di Lauro decide di intervenire, anche a partire dalla propria esperienza. Per la deputata, si tratta di «un’esigenza che avverto profondamente, anche per la mia esperienza personale. Qualche tempo fa ho scelto anch’io di ricorrere al social freezing, dopo essermi ritrovata single a 35 anni al termine di una relazione molto lunga. In quella occasione ho potuto constatare direttamente, sulla mia pelle, tutte le difficoltà e le mancanze che oggi in Italia accompagnano questo tipo di procedura. Mi sono resa conto di quanto il percorso possa essere complesso e poco accessibile per qualunque ragazza decida di intraprenderlo, e proprio per questo sento la responsabilità di portare avanti questa battaglia».

Il testo della proposta di legge A.C. 2287 prova a colmare un vuoto normativo che la stessa relazione definisce “quasi unico” nel panorama europeo. La pdl riconosce a tutte le persone il diritto di preservare la propria fertilità attraverso il prelievo e la conservazione delle cellule riproduttive, da utilizzare in seguito nelle tecniche di PMA disciplinate dalla legge 40/2004. Il diritto è esplicitamente esteso sia agli uomini sia alle donne: per i primi tra i 18 e i 40 anni, per le seconde tra i 27 e i 35 anni, con possibilità di deroga in presenza di patologie che compromettano la capacità riproduttiva e, in via eccezionale, anche per i minori che abbiano compiuto i 16 anni.

Non si tratta solo di dire “si può fare”, ma di stabilire chi paga. L’articolo 5 della proposta prevede che tutte le prestazioni relative alla preservazione della fertilità – compreso il prelievo e la conservazione delle cellule – siano incluse nei Livelli essenziali di assistenza (LEA) con oneri integralmente a carico del Servizio sanitario nazionale. In attesa dell’aggiornamento formale dei LEA, il testo aveva previsto una spesa di 10 milioni di euro per il 2025, a cui si dovrebbero aggiungere 2 milioni l’anno per campagne di informazione rivolte ai cittadini.

Di Lauro ha annunciato che interrogherà il Ministro Schillaci per sapere non solo se e in che termini la crioconservazione per finalità non mediche sia oggi consentita nell’ordinamento, ma anche quali siano le patologie che permettono l’accesso alla procedura, quali dati aggiornati e disaggregati esistano – soprattutto sulla distribuzione territoriale e sul peso del privato – e se il governo intenda valutare forme di sostegno economico o di inclusione nei LEA, in coerenza con i principi di equità, prevenzione e tutela della salute riproduttiva sanciti dall’articolo 32 della Costituzione.

Nel nostro Paese qualcosa si è già mosso a livello regionale. La Puglia ha già  introdotto un contributo economico strutturato per il social freezing: da giugno 2025 le donne residenti tra i 27 e i 37 anni, con ISEE fino a 30.000 euro, possono ottenere un bonus una tantum fino a 3.000 euro per coprire le spese di crioconservazione degli ovociti (esclusi farmaci e conservazione oltre i 12 mesi). È un aiuto mirato, non una piena presa in carico da parte del SSR, ma rappresenta comunque una prima sperimentazione concreta di “giustizia riproduttiva” territoriale. Anche in Sicilia il Movimento 5 Stelle ha presentato all’Ars un disegno di legge che va nella stessa direzione: diritto di accedere al social freezing alle donne tra i 27 e i 40 anni residenti in Sicilia da almeno un anno e con un ISEE non superiore a 30 mila euro, diritto a beneficiare di un contributo economico fino a 3 mila euro ‘una tantum’ a rimborso delle spese effettivamente sostenute per la crioconservazione e per le prestazioni mediche legate alla procedura ad eccezione delle spese farmaceutiche.

Nel Lazio, invece, il dibattito si concentra su un progetto regionale – definito “prima legge salva nascite” dalla sua promotrice, la consigliera Eleonora Mattia – che punta a estendere l’accesso gratuito alla crioconservazione degli ovociti, oggi garantita solo alle donne under 40 con diagnosi oncologica, anche ad altre patologie come endometriosi e menopausa precoce e a ridurre i costi per le coppie meno abbienti. La proposta non è ancora legge, ma il fatto che il tema entri nell’agenda regionale – e si intrecci con i nuovi percorsi di PMA a carico del SSR – segnala che la preservazione della fertilità sta diventando, almeno in alcuni territori, materia di politiche pubbliche e non più solo di contrattazione individuale con le cliniche private.

Come spesso capita, l’Italia rincorre trend che nel resto d’Europa sono già affermati. In Francia, dal 2021, la legge di bioetica consente l’autoconservazione degli ovociti per motivi non medici a tutte le donne tra i 29 e i 37 anni con copertura del sistema sanitario pubblico: nei primi mesi dall’entrata in vigore, circa 3.000 donne hanno presentato richiesta, segno di una domanda latente che si è subito espressa appena rimossi gli ostacoli economici.

Allo stesso modo, in Spagna, dove il social freezing è praticato da anni, l’accesso è ampio soprattutto nel privato e il Paese è da tempo una delle destinazioni principali del “turismo riproduttivo” europeo per PMA e tecniche correlate.

L’Italia, al contrario, continua a essere indicata nelle analisi comparative come uno dei pochi Paesi europei in cui la crioconservazione per fini sociali non è regolamentata in maniera completa e non è coperta dal sistema sanitario nazionale, se non in casi specifici di oncofertilità. In un contesto in cui il dibattito pubblico sulla denatalità si concentra spesso su bonus, assegni e retoriche sulla “culla vuota”, il fatto che uno strumento di prevenzione come il social freezing resti appannaggio quasi esclusivo delle fasce più abbienti rischia di produrre una doppia diseguaglianza: economica, perché chi non può pagare resta escluso, e di genere, perché a pagare il prezzo del tempo biologico sono soprattutto le donne.

Naturalmente, il social freezing non è una bacchetta magica. Studiosi e società scientifiche ricordano che il tasso di successo – cioè la probabilità di ottenere una nascita viva da ovociti congelati – dipende molto dall’età al momento del prelievo e resta lontano dal 100%. C’è chi teme che possa diventare un “ammortizzatore sociale” che sposta ancora più in là il momento della maternità senza affrontare i nodi strutturali: precarietà lavorativa, costo degli affitti, carenza di nidi e servizi di cura, squilibrio nei carichi familiari.

Proprio qui, però, si inserisce la battaglia di Di Lauro: l’idea che preservare la fertilità non significhi scaricare sulle donne la responsabilità di “aggiustare” da sole la crisi demografica, ma riconoscere loro una parte di autonomia in più in un Paese che continua a chiedere di scegliere tra carriera e maternità. Se l’Italia si avvia davvero verso un 2050 in cui avremo un pensionato per ogni lavoratore, come suggeriscono le proiezioni dell’Inapp, allora la discussione su strumenti come il social freezing è anche un test di coerenza: quanto siamo disposti a spostare risorse, norme e cultura per fare della natalità non una retorica, ma una politica?

La risposta, almeno in parte, passerà nelle prossime settimane dal calendario parlamentare. L’interrogazione della deputata M5S costringerà il governo a prendere posizione sulla fotografia – ancora frammentaria – del social freezing in Italia, sulle diseguaglianze di accesso e sulla possibilità di un primo passo verso la copertura pubblica. La speranza è quella che, finalmente, si apra un dibattito in grado di concepire la fertilità non più come affare privato e responsabilità individuale della donna, ma come parte del welfare e come tale da discutere in aula, con numeri, dati e proposte alla mano.