l dibattito attorno alla Legge di bilancio del governo Meloni ha finalmente preso quota, e come da tradizione italiana lo ha fatto nel modo più confusionario e ideologico possibile: partendo da un’audizione tecnica e arrivando, nel giro di ventiquattr’ore, a titoli urlati su presunti “regali ai ricchi”, con conseguente proclamazione dello sciopero generale di marca CGIL per venerdì 12 dicembre.
Tutto nasce da alcune valutazioni emerse durante le audizioni parlamentari in cui Banca d’Italia e ISTAT hanno illustrato i loro commenti tecnici sulla manovra.
Parliamo di osservazioni — appunto — tecniche, che evidenziano come il taglio del cuneo fiscale in questa Legge di Bilancio favorisca maggiormente i redditi tra i 28.000 e i 50.000 euro lordi l’anno, cioè la parte centrale della curva contributiva. Nessun giudizio politico, nessuna valutazione morale.
Ma come spesso accade, alcuni organi d’informazione — leader e non follower dell’opposizione politica — hanno subito tirato dalla propria parte queste valutazioni per costruire una narrazione piuttosto artificiosa: ovvero che il governo Meloni avrebbe finalmente gettato la maschera, facendo una manovra “per i ricchi”.
Ora, a parte che se in Italia chi guadagna intorno a 2.000 euro al mese viene definito ricco, allora forse abbiamo smarrito il senso delle proporzioni. Ma il punto è che non si dovrebbero trattare le istituzioni indipendenti come se fossero testimonial da piegare a favore di una campagna di comunicazione.
Quando succede, vuol dire che si sono finiti gli argomenti politici e le controproposte, e ci si affida al commento terzo per rinforzare la propria mancanza di contenuti.
In realtà, la manovra è molto più semplice di come viene raccontata. Dopo due Leggi di bilancio — quella del 2023 e del 2024 — che hanno concentrato il taglio del cuneo fiscale sui redditi più bassi, in questa terza versione il governo ha scelto di estendere il beneficio verso l’alto, arrivando a coinvolgere fasce che, in molti altri Paesi europei, vengono ancora considerate classi medie, e non certo élite economiche.
La scelta, discutibile o meno, ha una sua coerenza: non si può chiedere ogni anno di sostenere i consumi, e poi stupirsi se si cerca di alleggerire il carico fiscale anche a chi quei consumi li può ancora sostenere. Anzi, in un contesto dove inflazione, mutui, e carovita colpiscono trasversalmente, è quasi logico che dopo aver aiutato le fasce più fragili si tenti di dare un segnale anche a chi regge, con fatica, la struttura contributiva del Paese.
Quello che manca nel dibattito, come sempre, è un po’ di onestà intellettuale. Non si può da un lato invocare la “classe media” come pilastro della democrazia e poi, appena si riducono le tasse a quella stessa fascia, accusare il governo di fare favori ai privilegiati.
Forse sarebbe più utile discutere nel merito: il taglio è sufficiente? Ha senso strutturarlo così? È sostenibile? Tutte domande legittime.
Ma la retorica del “regalo ai ricchi” è uno slogan che potrebbe funzionare sui social, ma che non regge come bandiera da agitare per recuperare consenso. Anche perché i potenziali destinatari del taglio, “ricchi” non ci si sentono di sicuro.
In fondo, l’unica vera verità di questa manovra è che continua nella linea delle precedenti: meno ideologia, più manutenzione. Con un’attenzione forse più moderata, ma non meno concreta, verso chi lavora, paga le tasse e si aspetta — legittimamente — che lo Stato ogni tanto gliene faccia pagare qualcuna in meno.
Tutto questo in attesa dell’ultima Legge di Bilancio della XIX Legislatura, per la quale già si parla di un accantonamento delle risorse nell’ordine dei 6-7 miliardi di euro. Il bazooka di fine governo per lanciare la volata verso le elezioni politiche 2027.





