Cultura
“Dio, Io, AI”: il libro di Ceresani e il Senato che esplora il senso dell’intelligenza artificiale
Di Ilaria Donatio
“Dio ha dato agli uomini la scienza perché fosse glorificato nelle sue meraviglie”, si legge nel Siracide. Una frase antica che suona oggi come un avvertimento e una promessa: la conoscenza, dono divino e conquista umana, continua a essere il terreno su cui si misura il nostro rapporto con il mistero della creazione. E mai come ora, con l’intelligenza artificiale, quel terreno è diventato scivoloso.
A interrogarsi su questo equilibrio è Cristiano Ceresani, giurista e saggista, cultore di teologia, storia e filosofia, e attento studioso di antropologia e geopolitica, autore di Dio, Io, AI. La mente artificiale incontra il divino, pubblicato prima dell’estate per le Edizioni Cantagalli.
Nella prefazione al volume, l’intellettuale e scrittore Marcello Veneziani scrive che si tratta di “un dialogo suggestivo e serafico tra l’uomo e l’intelligenza artificiale al cospetto del mistero divino”, in cui la macchina non sostituisce ma riflette l’intelligenza umana. E definisce questo percorso come “un libro dal senso triangolare”, dove l’AI si presenta “per un verso come la sostituzione dell’umano, dopo averne allargato le possibilità, e per l’altro come la sostituzione del divino, di cui diventa il surrogato tecnologico”.
Qual è, allora, il discrimine di fondo da adottare? Ceresani lo pone in termini radicali: comprendere se l’uomo intenda servirsi della scienza come strumento di bene o consegnarsi ad essa come nuovo idolo del progresso. Da questa domanda si diramano le questioni che attraversano il suo libro: la dignità della vita umana, dal concepimento alla morte naturale; il mistero del male innocente; il rapporto tra scienza e fede; l’utopia della palingenesi tecnologica e lo scandalo della fame nel mondo; la custodia del creato, il proliferare dei conflitti e l’urgenza della pace; il relativismo e la confusione antropologica; infine, la necessità di una visione profetica ed escatologica capace di leggere i segni dei tempi.
Un mosaico di interrogativi che ha trovato un riscontro concreto nel convegno “Oltre l’algoritmo. Umanesimo e trascendenza nell’era dell’intelligenza artificiale”, promosso dal senatore Lucio Malan nella Sala degli Atti parlamentari della Biblioteca del Senato “Giovanni Spadolini”. È stato lo stesso Cristiano Ceresani ad aprire i lavori, ringraziando i presenti e introducendo il senso del suo dialogo tra mente artificiale e mente divina, prima di lasciare la parola a Valerio De Luca, direttore della SPES Academy, che ha sottolineato come la riflessione sull’intelligenza artificiale imponga oggi una nuova gerarchia di significati: “Nella nostra epoca la verità non è più qualcosa da scoprire, ma qualcosa da calcolare”, ha osservato, ricordando che “la libertà non è assenza di vincoli, ma la capacità di scegliere i vincoli dati.”
Subito dopo è intervenuta la giornalista Barbara Carfagna, che ha offerto un’introduzione densa di spunti.
Carfagna ha ricordato come già nel 2017 un grande esperto di cybersecurity le fece notare che il vero “competitor” dell’intelligenza artificiale non era l’uomo, ma la religione. Da quel momento, ha raccontato, il suo lavoro l’ha portata a documentare casi emblematici – dal piano regolatore dell’Azerbaigian, dove l’AI è già impiegata in forme agentiche, ai sistemi di sicurezza dei villaggi capaci di scrutare le espressioni umane per prevenire rischi – fino agli studi di Zurigo, secondo cui l’intelligenza artificiale risulta sette volte più persuasiva di un essere umano.
Una riflessione che ha toccato temi come il libero arbitrio e la persuasione, l’editing genetico e i dilemmi legati all’intervento sugli embrioni per eliminare malattie, fino alla possibilità – ormai concreta – di interrogare le Sacre Scritture tramite sistemi di IA. “Nella nostra epoca la verità non è più qualcosa da scoprire, ma qualcosa da calcolare”, ha osservato, ricordando che la libertà non è assenza di vincoli, ma la capacità di scegliere i vincoli dati.
La parte centrale del convegno è stata la Lectio magistralis di Sua Eminenza il cardinale Robert Sarah, dal titolo “L’umanità al bivio tra intelligenza algoritmica e intelligenza sovrannaturale”.
Un intervento che ha dato spessore e orientamento all’intero incontro, riportando il discorso sull’intelligenza artificiale al suo punto più essenziale: che cosa è, oggi, l’uomo?
Il cardinale ha esordito chiedendosi se sia moralmente corretto definire “intelligente” una macchina. La tendenza, ha osservato, è quella di antropomorfizzare ciò che umano non è, come già accade con gli animali da compagnia e, oggi, con i dispositivi che popolano la nostra quotidianità. Ma l’intelligenza umana non si esaurisce nella capacità di calcolo: ridurla a una funzione algoritmica significa smarrire la sua dimensione spirituale e relazionale.
Siamo immersi, ha detto, in “un clima di neoilluminismo pratico”, che rischia di spingere l’uomo a trasferire il proprio cervello all’esterno, in una macchina, come se il corpo e la coscienza potessero diventare superflui. L’intelligenza, invece, non è solo computazione: esistono l’intelligenza emotiva, quella intuitiva, quella morale. “Un veicolo a guida autonoma – ha spiegato – non riesce a intuire che un bambino sta per attraversare la strada. L’uomo, sì”.
Sarah ha citato due tra i maggiori pensatori contemporanei del rapporto tra etica e tecnologia, Paolo Benanti e Luciano Floridi, ricordando come entrambi abbiano contribuito a definire i principi etici e bioetici fondamentali per uno sviluppo responsabile dell’intelligenza artificiale: dalla beneficenza alla giustizia, dall’autonomia alla necessità di rendere i sistemi intellegibili e trasparenti.
Nella sua conclusione, il cardinale ha ammonito contro l’illusione che la tecnica possa diventare una risposta totale: “Non tutti i problemi dell’umanità possono essere risolti con un algoritmo o un robot. Scienza e tecnica non saranno mai una risposta alla ricerca di felicità, di senso, di verità”.
Nel dibattito è intervenuto anche Mario Caligiuri, presidente della Società Italiana di Intelligence (SOCINT), che ha sottolineato come “l’intelligenza artificiale, se saputa utilizzare, rappresenti una possibilità di prevenzione dei crimini e di interpretazione delle circostanze. Le tecnologie possono servire alla democrazia, se sono progettate in questa direzione”.
Tra gli interventi più lucidi e centrati, quello della professoressa Marta Bertolaso, ordinaria di Logica e Filosofia della Scienza all’Università Campus Bio-Medico di Roma. “C’è un elefante nella stanza – ha detto – che va fatto emergere per non perderci in discussioni che mancano di un baricentro”.
Quel baricentro, per Bertolaso, è la corporeità, senza la quale non esiste intelligenza autenticamente umana. L’esperienza dell’uomo, ha spiegato, passa attraverso i sensi e la presenza fisica nel mondo, una dimensione che nessuna macchina potrà mai replicare.
La filosofa ha poi ricordato che la macchina si nutre di dati e dunque vive nel passato, mentre l’essere umano è apertura al possibile, capacità di scelta e di futuro. “Io non temo l’intelligenza artificiale – ha citato – ma la stupidità umana”.
Da qui, le domande cruciali: “Quale uomo vogliamo? Quale società vogliamo?” Perché anche se tutti parlano di etica, non tutti hanno la stessa idea di uomo.
L’umanità, ha aggiunto, si interroga oggi sulle macchine che ha creato e che dipendono da lei, ma la vera scommessa resta sulla vita concreta: decidere significa tagliare, scegliere ciò che ha senso fare – e, forse ancor di più, ciò che non ha senso.
“L’intelligenza artificiale – ha detto – dovrebbe spronarci a esplorare di più, non di meno. L’orgoglio della responsabilità consiste proprio in questo: capire dove dobbiamo esserci noi, prima della macchina”.





