Politica

Eurobond e integrazione europea: perché serve un grande piano comune per la competitività, la sicurezza e il futuro dell’Unione

21
Settembre 2025
Di Gianni Pittella

Da europeista convinto non credo nel tifo cieco: non mi piace sostenere in ogni circostanza l’iniziativa delle istituzioni europee senza spirito critico. Al contrario, credo sia doveroso essere esigenti e chiedere all’Unione Europea di fare di più sul fronte dell’integrazione, soprattutto in un momento delicato e cruciale come quello che stiamo vivendo.

Sono ore terribili: in pochi giorni si sono registrate tre incursioni negli spazi aerei di Paesi europei e membri della NATO da parte della Russia; il mondo è attraversato da drammi come la crisi di Gaza e il conflitto in Ucraina. Di fronte a tutto questo, non basta un sostegno incondizionato: serve capacità critica, ma anche visione.

Non condivido nemmeno, però, l’atteggiamento opposto: quello di chi si oppone a prescindere a ogni iniziativa dell’Unione Europea, per puro spirito polemico. Serve equilibrio. Anche la recente conferenza stampa congiunta tra la Presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, e l’ex premier italiano Mario Draghi va valutata in questo modo: se è vero che a un anno dal rapporto Draghi sulla competitività alcuni passi avanti sono stati fatti, è altrettanto vero che su questioni di fondo non percepisco l’urgenza politica che la situazione richiede.

Prima fra tutte la questione degli eurobond: il lancio di titoli comuni di debito europeo che consentirebbero all’UE di raccogliere risorse pari al 5% del PIL — circa 800 miliardi di euro l’anno — da destinare a programmi capaci di affrontare le grandi sfide del nostro tempo. Penso al superamento del divario tecnologico con Stati Uniti e Cina, alla transizione verde e alla riduzione del costo dell’energia, al rafforzamento della difesa, della sicurezza, della cybersicurezza e della formazione. Penso al valore di un programma Erasmus ampliato, in grado di coinvolgere milioni di giovani europei. Penso al finanziamento di reti di trasporto moderne, della ricerca sanitaria, farmaceutica e aerospaziale.

La domanda che rivolgo alla Presidente della Commissione è semplice: davvero crede che tutto questo possa essere finanziato con l’attuale bilancio europeo, che ammonta a poco più dell’1% del PIL? O non serve piuttosto — come Draghi ha ripetutamente sostenuto, parlando senza mezzi termini di “minaccia esistenziale” — un salto politico e finanziario, capace di superare le divisioni nazionali e di dar vita a un grande piano di investimenti fondato sul lancio di eurobond, come avvenne per il Next Generation EU?

La crescita degli investimenti privati è importante, e va incoraggiata, ma possiamo davvero illuderci che basti? Possiamo pensare che la sola regolamentazione, o l’eliminazione degli ostacoli residui del mercato unico, siano sufficienti a colmare il divario di competitività e innovazione? Sono passi necessari, ma non risolutivi. La questione centrale resta quella delle risorse comuni: serve una leva fiscale e di bilancio che consenta all’Unione di finanziare i beni pubblici europei.

Questa è la vera sfida, che riguarda non solo la competitività ma l’idea stessa di Europa. La mia idea di Europa non è quella di una semplice confederazione di Stati, che si limitano a versare fondi da gestire autonomamente. È quella di un soggetto sovranazionale, capace di programmare e finanziare in modo diretto e condiviso le politiche sui beni comuni, superando i nazionalismi e affermandosi come un attore globale di primo piano