Politica

Soft power, digitale e nation branding: l’Italia ha bisogno di una strategia unitaria

17
Luglio 2025
Di Ilaria Donatio

(Articolo pubblicato su L’Economista, inserto de Il Riformista)
Cosa hanno in comune i Maneskin, il G7 e i cavi sottomarini? A prima vista, nulla. E invece, tutti e tre – musica, diplomazia e infrastrutture digitali – sono oggi strumenti di soft power, leve strategiche per costruire la reputazione di un Paese nel mondo. Ne è convinto Antonio Deruda, esperto di diplomazia digitale e autore di Geopolitica digitale, che – dopo esperienze analoghe al G20 e al G7 del 2017 – nel 2024 ha coordinato la comunicazione dell’Ufficio Sherpa G7 della Presidenza del Consiglio, guidato dall’ambasciatrice Elisabetta Belloni.

«Negli ultimi anni è cresciuta la consapevolezza istituzionale sul ruolo del nation branding» osserva Deruda. «Eventi globali come il G7 o il G20 sono occasioni preziose per posizionare un Paese, ma servono visione e coerenza. Non bastano i simboli: serve un sistema».

Tre i principi guida adottati durante la Presidenza italiana: una narrativa unificata tra oltre venti incontri ministeriali, una comunicazione digital first – «il G7 più raccontato in diretta di sempre» – e la capacità di attivare gli elementi variabili della reputazione, quelli più sensibili al contesto, come leadership politica, successi sportivi e cultura pop.

È anche grazie a questo che, secondo l’Anholt Nation Brands Index, l’Italia è oggi al terzo posto mondiale per reputazione. Ma c’è un paradosso: «Siamo ai vertici per immagine esterna, ma in fondo alla classifica per percezione interna. Il vero rischio è che il racconto dell’Italia arrivi più forte all’estero che a casa. Per questo ogni strategia di nation branding dovrebbe avere una declinazione interna, come nation building». Deruda cita il caso della Russia come esempio opposto: «Lì la percezione interna è altissima, mentre quella esterna è ai minimi». Una dinamica legata alla natura autoritaria del regime e alla manipolazione della narrazione pubblica, in forte contrasto con la reputazione internazionale, dopo l’invasione dell’Ucraina. L’Italia, al contrario, è una democrazia che fatica a riconoscere il proprio valore, proprio mentre il mondo – dai mercati alla cultura – la guarda con attenzione e rispetto.

Il nodo strutturale resta però l’assenza di un sistema: «Paesi come Singapore, Finlandia o Corea del Sud hanno uffici dedicati che monitorano gli indicatori reputazionali, elaborano KPI (Key Performance Indicator), promuovono coerenza tra ministeri, ambasciate, istituti culturali e imprese. La Finlandia, ad esempio, definisce ogni anno degli obiettivi strategici comuni a tutti gli attori coinvolti, dal turismo agli investimenti. In Italia, invece, ancora troppo spesso tutto si riduce a un sito turistico o a campagne scollegate tra loro».

Eppure il potenziale c’è. «Il made in Italy funziona, ma è minacciato dalla frammentazione. Nelle fiere internazionali, la Turchia si presenta con una narrazione unica e coerente. Noi con un patchwork di regioni e stand autonomi. Così si perde forza e riconoscibilità».

Una delle chiavi sarà ricostruire un rapporto più solido tra pubblico e privato. «Molte imprese sono diffidenti verso le campagne istituzionali, mentre la pubblica amministrazione ha spesso rinunciato a coinvolgerle in modo efficace. Ma in un mondo sempre più competitivo, le nostre PMI devono poter contare su un racconto-Paese forte, capace di aprire mercati e rafforzare la fiducia degli investitori. La comunicazione, in questo senso, è una leva economica, non un esercizio estetico».

Il digitale, aggiunge, è cruciale anche in chiave geopolitica. «Oggi la connettività è potere. Il 20% del traffico internet globale passa dal Mediterraneo: Sicilia, Liguria, Roma potrebbero diventare nuovi hub digitali, alternativi al predominio francese. Ma servono infrastrutture, governance, investimenti. Non basta esserci geograficamente: bisogna esserci anche politicamente e industrialmente».

C’è poi un pubblico dimenticato: «Spesso racconta l’Italia con toni disillusi, se non ostili. Ma quegli stessi expat, se valorizzati, possono diventare i nostri ambasciatori naturali. Occorre coinvolgerli, informarli, renderli parte di un progetto nazionale».

La proposta è chiara: creare un centro nazionale per la reputazione. «Un ufficio istituzionale che faccia intelligence, produca creatività, coordini le strategie. Senza una regia, resteremo una potenza culturale che comunica in ordine sparso».

In un mondo multipolare e iperconnesso, dove ogni Paese è anche un brand in competizione globale, la reputazione non è un accessorio: è un asset strategico. E chi non la governa, la subisce.