Economia

Istat, bene commercio e bilancio, Italia comunque ancora fragile

21
Maggio 2025
Di Giampiero Cinelli

Dopo l’impulso della ripresa post-pandemica, l’economia italiana mostra segnali di rallentamento e riemergono con forza le sue fragilità strutturali. Il PIL nel 2024 è cresciuto appena dello 0,7%, come nel 2023, restando indietro rispetto alla Francia (1,2%) e alla Spagna (3,2%), ma facendo meglio della Germania, che ha registrato un’altra contrazione (-0,2%). Il quadro complessivo è descritto nel Rapporto Annuale 2025 dell’Istat, che mette in luce un’Italia divisa tra dinamiche economiche e sociali divergenti.

La produzione industriale italiana continua il suo declino: -4% nel 2024, dopo il -2% del 2023. È un indicatore chiaro della debolezza del comparto manifatturiero, che risente di una domanda interna ancora fiacca.

Anche se la bilancia commerciale ha raggiunto un surplus di 55 miliardi di euro, questo risultato positivo non basta a sostenere l’economia. I consumi interni sono cresciuti solo dello 0,6%, frenati da salari stagnanti e da un potere d’acquisto che, nonostante un lieve recupero (+1,3%), resta inferiore del 10% rispetto al 2019.

Dopo anni di rincorsa all’inflazione, solo dal 2023 i salari hanno iniziato a guadagnare terreno. L’inflazione si è ridotta notevolmente nel 2024 (1,1%, rispetto al 5,9% del 2023), ma i dati di aprile 2025 (IPCA +2,1%) suggeriscono una possibile nuova impennata.

Nel frattempo, i conti pubblici migliorano: l’indebitamento netto è sceso dal 7,2% al 3,4% del PIL, grazie a maggiori entrate e al calo della spesa pubblica (in particolare per la riduzione del Superbonus). Anche il saldo primario torna in attivo (+0,4%) per la prima volta dal 2019.

Tuttavia, il debito pubblico riprende a salire: 135,3% del PIL nel 2024, rispetto al 134,6% del 2023. Il rallentamento del PIL nominale (deflatore passato dal 5,9% al 2,1%) e l’aumento della spesa per interessi hanno inciso su questo peggioramento.

Sul fronte occupazionale, si registra una crescita del numero di occupati (+1,5%), trainata dall’aumento dei contratti a tempo indeterminato, mentre quelli a termine calano del 6,8%. Ma l’Italia resta in coda in Europa per tasso di occupazione tra i 15 e i 64 anni (62,2%), distante dai livelli di Germania (77%), Francia (69%) e Spagna (66%).

Persistono inoltre forti disuguaglianze: tra uomini e donne (17,8 punti percentuali di divario) e tra Nord e Sud (gap di 20,4 punti). La qualità dell’occupazione resta un problema: oltre un terzo dei giovani lavoratori e quasi un quarto delle donne si trovano in situazioni di vulnerabilità lavorativa.

Il lavoro part-time, spesso involontario, riguarda circa il 30% delle donne. Inoltre, un quinto dei lavoratori percepisce un reddito basso: la percentuale sale al 29,5% tra i giovani sotto i 35 anni e al 35,2% tra i lavoratori stranieri. La precarietà espone al rischio di povertà: il 46,6% di chi ha un contratto a termine è economicamente fragile.

Tutto ciò si riflette sul piano sociale: l’8,4% delle famiglie italiane vive in condizioni di povertà assoluta, una quota che sale al 12,4% tra i nuclei con figli. Tra gli stranieri, l’incidenza raggiunge il 35%. L’istruzione rimane una leva protettiva importante: nelle famiglie con almeno un diploma, la povertà assoluta si riduce al 4,6%.