Politica

Meloni nella tana del lupo (rosso)

18
Marzo 2023
Di Ettore Maria Colombo

Una lunga storia di scontri tra premier e Cgil

Di certo non è andata come andò tra l’allora premier Romano Prodi e la Cgil di Guglielmo Epifani: “il vostro programma è il mio” disse, nel corso della campagna elettorale in vista delle elezioni del 2008 il primo. “Il tuo programma è il nostro” gli rispose la Cgil. Ma non è andata neppure come sempre tra il leader storico del centrodestra, e più volte presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, e il sindacato più grande e più ‘rosso’ d’Italia. Nel 1994, il I governo Berlusconi cadde subito dopo una grande manifestazione dei sindacati (Cgil in testa) contro l’allora riforma delle pensioni (un po’ come oggi, in Francia con Macron, i sindacati paralizzarono il Paese). Nel ‘biennio rossiccio’ (2001-2002) i sindacati, con l’appoggio del movimento dei girotondi, ci provarono di nuovo, a far cadere Berlusconi (li guidava ‘il Cinese’, alias Sergio Cofferati, allora leader della Cgil), ma non ci riuscirono stavolta anche se portarono in piazza milioni di persone (zenit, la manifestazione a San Giovanni), interpretando il ruolo di una ‘vera’ opposizione all’allora Casa delle Libertà molto di più dei partiti di sinistra, all’epoca tramortiti e deboli. E non è andata neppure come quando, con Matteo Renzi al governo, prima la Cgil si oppose in modo feroce al Jobs Act e poi diede il suo bel contributo per far dimettere Renzi infoltendo i comitati del ‘No’ alla sua riforma costituzionale, anche se Renzi era, all’epoca, segretario del Pd. 

Certo è che, con Giorgia Meloni, non solo prima donna premier, ma anche prima leader di un partito dichiaratamente ‘di destra’ (puro fumo negli occhi, per la Cgil), è sempre una ‘prima volta’. In questo caso è la ‘prima volta’ che una premier di destra va nella ‘tana del lupo’, le assisi di Rimini dove la Cgil celebra il suo congresso che prevede, in modo scontato, la rielezione del ‘rosso’ Maurizio Landini alla guida del sindacato. 

Non si vedeva un presidente del Consiglio intervenire a un congresso della Cgil da Prodi

Peraltro, è la presenza stessa di un premier sul palco della Cgil di cui non si ha memoria da circa trent’anni. Bisogna risalire a Romano Prodi nel 1996 per trovarne un altro. Non era scontato. Dall’Ulivo alla Fiamma, c’è tutto un mondo. Compresa quella ferita, ancora aperta, dell’assalto alla sede di Corso d’Italia sfregiata da Forza Nuova, a dicembre di ormai più di due anni fa. 

“Un segno di rispetto e riconoscimento del ruolo di una organizzazione che rappresenta 5 milioni di persone”, dice Landini e si vede che, almeno a lui, la presenza di Meloni non gli dispiace. “Il sindacato è autonomo, parliamo con tutti. E se le cose non vanno, andiamo in piazza, come abbiamo fatto a dicembre scorso con la Uil sulla manovra economica e come facemmo contro Draghi sulla riforma del fisco”, sottolinea.

Certo è che fa impressione risalire al 1981 per ricordare il primo premier ad un Congresso Cgil: fu il leader del Pri Spadolini. E poi quello del Psi Craxi nel 1986. E, appunto, Prodi nel 1996. “Ma noi li invitiamo tutti, è la prassi”, insiste Landini. Berlusconi nel 2010, fu invitato, ma mandòGianni Letta. Invece, Renzi nel 2014 e Conte nel 2019 non vennero e non mandarono nessuno. Invece, Giorgia Meloni, leader di FdI, è andata.

Qualche contestazione, tanto gelo, niente fischi

Ed è andato tutto fin troppo bene, date le premesse. Forse perché era il giorno della festa dell’unità nazionale del Paese, il 17 marzo. Forse perché a nessuno dei due pesi massimi in campo – la premier, a nome del governo di centrodestra, e il leader del più grande sindacato italiano – conveniva la rissa, anzi: cercavano una sorte di legittimazione reciproca. Forse perché, quando sei invitato a casa altrui, tu non sporchi per terra e chi ti invita non ti fa ingoiare fichi e fischi secchi. 

Insomma, la prima volta di una premier di centrodestra, oltre che donna, a prendere la parola davanti al sindacato più rosso d’Italia è una sorta di ‘non’ evento o di ‘non’ notizia. Tutto va bene. Non è la contestazione plateale della minoranza della Cgil, che lascia la sala cantando Bella Ciao, a rovinare la festa anche perché tutta a uso interno (è la minoranza che, guidata da Elisa Como, conta 24 delegati su mille del congresso, il 2,4%), cioè di chi prova ad apparire, sotto i riflettori, persino più ‘a sinistra’ di Landini, e ce ne vuole. E neanche la battuta un po’ acida di Giorgia Meloni sulle magliette dei contestatori sindacali (“Pensati sgradita”), accostate a quelle di Chiara Ferragni a Sanremo (“non pensavo che si trattasse di una metalmeccanica”). La scintilla dello scontro tra premier e platea del XIX congresso di Rimini non si accende. Beghe interne alla Cgil. Certo, parte qualche ‘Bella ciao’, ma sommesso. 

La contestazione (sull’antifascismo, sui migranti) non fa breccia. I contestatori a stento si vedono, ma fuori dal congresso, da cui erano appena usciti quando la premier era entrata. Landini, del resto, era stato categorico: “Abbiamo scelto di fare un congresso aperto, di parlare con tutti”, spiega in giacca e cravatta rossa, accogliendola con una stretta di mano e prima di cederle la parola. “È il momento di imparare anche ad ascoltare ed è importante per noi come organizzazione sindacale: non è solo altruismo, ma la miglior condizione per chiedere il diritto di essere ascoltati”. Il che non fa una piega, per un sindacato che ha, nel suo dna, la contrattazione. Il mondo del lavoro, spiega il segretario, “deve esser messo nelle condizioni di negoziare le riforme di cui ha bisogno”. Sulla presenza della Meloni, che ha ringraziato, parla di “rispetto e di riconoscimento di chi siamo, protagonisti del cambiamento del Paese, non semplici spettatori”. 

Il silenzio fa da contorno a un premier sicuro 

Il silenzio, invece, colpisce. Un silenzio che dura secondi, minuti, decine di minuti. Neanche mezzo applauso, se si esclude quello sussurrato che i delegati concedono quando la leader va sul palco.

La voce della Meloni rimbomba nel silenzio, ma ma per tutto il discorso non si registrano fischi. Meloni, in ogni caso, mette le mani avanti: “Li prendo da quando ho sedici anni, sono Cavaliere al merito delle contestazioni subite, figuriamoci se li temo”. Certo, nessuno sorride compiaciuto. 

La preoccupazione della platea, e dei vertici della Cgil, è per l’elenco lunghissimo delle misure fiscali e salariali, “le scelte del governo le rivendichiamo con orgoglio” come dice Meloni. 

Di più: proprio la delega fiscale, per la premier, “è stata bocciata da qualcuno in modo un po’ troppo sbrigativo”. In ogni caso non c’è spazio per il salario minimo, dice Meloni. Semmai, sostiene ”possiamo lavorare insieme su un grande sistema di ammortizzatore sociale per lavoratori autonomi e atipici”. Mezze aperture, ma poco promettenti. 

La ‘doppia violenza’ da cui bisogna guardarsi

Cita anche l’assassino di Marco Biagi e riconosce al sindacato l’aver pagato un prezzo alto alla lotta al terrorismo. Il primo, unico e tiepido applauso (al netto di quello accennato a fine discorso), arriva quando cita – ovviamente condannandolo – “l’assalto alla sede della Cgil da parte dell’estrema destra”, sottolineatura non casuale. Cita subito dopo gli anarchici “che si rifanno alle Br”. Li mette sullo stesso piano, destri e sinistri: “Credevamo che il tempo della contrapposizione ideologica feroce fosse alle nostre spalle e invece in questi mesi, purtroppo, mi pare che siano sempre più frequenti segnali di ritorno alla violenza politica, con l’inaccettabile attacco degli esponenti di estrema destra alla Cgil” e le azioni “dei movimenti anarchici che si rifanno alle Br”. L’appello è all’unità – una volta si sarebbe detta ‘antifascista’, ma non è il caso: “E’ necessario che tutte le forze politiche, sindacati e corpi intermedi combattano insieme contro questa deriva”.

Parla di “centralità alla famiglia” (tipica della destra) ma anche di “sostegno al lavoro femminile” (tipico della sinistra) e osa persino, in partibus infidelium, rivendicare la riforma del presidenzialismo “che è, per rispetto della volontà popolare e per questioni di stabilità, una delle più potenti misure di sviluppo da poter immaginare”.

Reddito di cittadinanza, salari, riforma fiscale

Poi sceglie di inoltrarsi sul sentiero dei ragionamenti sul reddito di cittadinanza, contestandone il fatto che fosse diventato da transitorio a definitivo, come misura: ”È una misura che ha fallito. Ha disincentivato il lavoro regolare. E non c’è platea più adeguata per dirlo” (la Cgil è sempre stata contraria al Rdc). Per questo, aggiunge, il governo l’ha abolito. Un modo per provare, inutilmente, a lisciare il pelo. 

Nel mezzo c’è il cuore dell’intervento della premier. Qui Meloni affronta il tema del ritardo dei salari italiani, “che non crescono da trent’anni”, ” gli unici più bassi che nel Novanta”. La risposta è “puntare tutto sulla crescita economica. Veniamo da un mondo in cui si pensava di abolire la povertà e creare lavoro per decreto. Oggi qualcuno chiede che sia lo Stato, per legge, per decreto a creare un salario elevato. Ma la ricchezza la creano le aziende e i loro lavoratori, lo Stato deve fare le regole. E la sfida è mettere aziende e lavoratori nelle condizioni migliori per crearla e farla riverberare su tutti”. E qui rivendica la riforma fiscale, frettolosamente bocciata da alcuni”, riferimento proprio alla Cgil. 

La Meloni elenca poi gli obiettivi della riforma fiscale, entra nello specifico e chiosa: “Lavoriamo per consegnare agli italiani una riforma complessiva che riformi l’efficienza della struttura delle imposte, riduca il carico fiscale e contrasti l’evasione fiscale, che semplifichi gli adempimenti e crei un rapporto di fiducia fra Stato e contribuente”, ma non convince la Cgil. 

Strada sbarrata, invece, al “salario minimo: non è la strada giusta, favorirebbe i soliti”. Miele per le orecchie cigielline, mai convinte della norma. Piuttosto “possiamo lavorare insieme un sistema di ammortizzatori sociali universali, sia il lavoratore dipendente, autonomo o atipico”. Per Meloni la ricetta è invece l’estensione della contrattazione collettiva, altro core business sindacale: “La soluzione, a mio avviso, è estendere i contratti collettivi a vari settori e intervenire per ridurre il carico fiscale sul lavoro”.

I leader, due underdog, hanno interessi simili

I delegati vorrebbero applaudire, ma ‘non’ possono. Una forte carica di ideologia della sinistra che fu, di cui sono custodi, lo impedisce. Finisce chiedendo ”un confronto”, sempre utile, che permetta ”sempre di imparare se non ci faremo limitare dal pregiudizio”. Meloni saluta, l’applauso è il minimo sindacale della cortesia, ma la verità è che il confronto non è andato male. Meloni teme un sindacato che soffia e incendia le piazze, come i sindacati e l’opposizione in Francia sulla riforma delle pensioni. Non se lo può permettere, dato il clima presente in Italia. Uno sciopero contro la riforma fiscale ‘ci sta’, se lo aspetta, e anche unitario, cioè insieme a Cisl e Uil, ma non vuole manifestazioni oceaniche contrarie come quelle contro i governi Berlusconi e neppure un’ostilità sorda come contro Renzi. Qualche ora di sciopero e di manifestazioni non si nega a nessuno, non è un problema. Un Paese paralizzato, messo a ferro e fuoco, è inaccettabile. Landini, dall’altra parte, sa che le opposizioni sono fin troppe divise (nel confronto messo in campo dalla Cgil il giorno prima tra Conte, Schlein, Calenda e Fratoianni lo hanno dimostrato che non sono d’accordo su quasi nulla) e che, se la maggioranza di governo non salta per cause endogene (la conflittualità latente con Lega e FI) non scoppierà mai per causa esogene (la ‘spallata’ della piazza). La Cgil è attesa da anni di barricate (virtuali) e di opposizione, certo, ma con misura. Il suo compito principale è chiudere i contratti, come ogni sindacato che si rispetti. Landini, per quanto sia ‘di sinistra’, verrà rieletto per quello. Neppure lui si può permettere anni di scontri, di destabilizzazione, di tensioni sociali pericolose. Alla fine, nella loro diversità, Meloni e Landini sono due underdog che si tengono stretti insieme.