Economia

La cura Fed fa effetto, negli Usa l’inflazione cala. Gli scenari da Washington a Francoforte

12
Gennaio 2023
Di Giuliana Mastri

La cura della Fed sta dando i suoi frutti. A dicembre l’inflazione è scesa al 6,5%, come attesta il Bureau of Labor Statics. In discesa dal 7,1% di novembre e lontano dal picco del 9,1% registrato a giugno. La più ampia diminuzione su base mensile da aprile del 2020. Una dinamica, in realtà, in gran parte generata dal calo della benzina. I prezzi alla pompa vanno giù del 9,4% su base congiunturale e ora sono in calo dell’1,5% rispetto a un anno fa. Il gasolio è sceso del 16,6% nel mese di dicembre, trainando un calo totale del 4,5% dell’indice energetico. In ogni caso gli analisti sottolineano l’azione della banca centrale statunitense sui tassi d’interesse, progressivamente aumentati fino a raggiungere il 4,25-4,50% a dicembre, con il settimo rialzo consecutivo.

Gli aumenti proseguiranno, nonostante i dati incoraggianti. Siccome si pensa che l’inflazione Core, ovvero l’indicatore sulla tendenza di lungo periodo, al netto dei prezzi più volatili di cibo e energia, rimarrà sostenuta. Infatti (al di là dei numeri oscillanti di generi alimentari ed energia) è salito dello 0,3%, come atteso, e registra un +5,7% rispetto a un anno fa, in linea con le stime. Ecco perché i pronostici parlano di un ulteriore rialzo di 25 punti base a febbraio. Per fermarsi a un massimo di 5-5,25% di costo del denaro. Non ha dubbi il Fomc, il Comitato della Federal Reserve deputato alla politica monetaria, che presumibilmente cesserà in estate l’azione di austerità, consistente anche in una riduzione del programma di acquisto titoli. I tassi resteranno alti in tutto il 2023, per poi scendere al 4,1% alla fine del 2024, questa l’ultima ipotesi risalente a dicembre.

A mantenere la linea della severità sono i dati sulla disoccupazione, sui minimi al 3,5%. Sebbene sia un dato positivo, sta a significare che i salari potrebbero crescere, con una conseguente spinta inflazionistica. Si tratterebbe, beninteso, della cosiddetta “inflazione buona”, che va comunque in parte frenata.

In Europa

Una strategia simile sta adottando la Bce, che ha alzato i tassi anche se in misura minore. Siamo al momento al 2,50% per il tasso sulle operazioni di rifinanziamento principale (presso la Banca Centrale), al 2% per il tasso sui depositi presso la Bce, legato anche al tasso sui prestiti interbancari (cioè tra banca e banca), al 2,75% per le operazioni di rifinanziamento marginale. Il Vecchio Continente comincia a vedere la discesa dell’inflazione, che dovrebbe attestarsi al 9,2% a dicembre 2022, in calo rispetto al 10,1% di novembre secondo la stima flash di Eurostat. I prezzi dell’energia sono scesi al 25,7%, in calo rispetto al 41,5% di ottobre. Il comparto alimentare ha visto una contrazione più moderata. Da segnalare, come gli italiani già sanno bene, che il ribasso dei combustibili ancora non si è tradotto in un alleggerimento della bolletta, a causa delle articolate dinamiche di mercato. Tuttavia si ha fiducia che i primi risparmi dei consumi energetici si verificheranno tra due mesi. La congiuntura non soddisfa neanche Christine Lagarde. Il capo dell’Istituto di Francoforte aveva già detto che il board valuterà altre strette dei tassi per poi decidere quando fermarsi. Intanto nuove decisioni saranno prese a febbraio.

Non bisogna dimenticare che…

La politica monetaria americana non è importante solo per capire a grandi linee quale passo avrà l’economia mondiale, ma anche per prevedere possibili smottamenti e difficoltà nei singoli Paesi europei. Ad oggi, infatti, vigendo la libera circolazione dei capitali quasi ovunque, gli investitori finanziari possono essere ingolositi da titoli più costosi, che danno maggiori rendimenti, poiché, all’aumento dei tassi, è probabile che la moneta si apprezzi o che comunque i titoli di Stato acquistino valore. Ma se molti capitali affluiscono oltreoceano, questo è un potenziale problema per il finanziamento del debito in Europa. Dunque i Paesi più esposti potrebbero essere costretti ad aumentare i tassi d’interesse per far comprare il loro debito. Questa dinamica si è verificata negli ’80, quando una politica monetaria aggressiva fatta da Ronald Reagan ha indotto l’Italia a offrire alti interessi, anche perché bisognava difendere la fissità del cambio nel sistema SME. Stabilità di cambio che si ottiene anche qualora la tua valuta continui a essere comprata. Questo è uno dei fattori che ha contribuito molto all’esplosione del debito pubblico italiano. Oggi, comunque, visto che i tassi sono abbastanza alti anche in Europa, fenomeni del genere non dovrebbero verificarsi.