Politica

Conte e Salvini sognano la crisi di governo, ma l’appuntamento è rimandato all’autunno per ora

17
Giugno 2022
Di Ettore Maria Colombo

Matteo Salvini e Giuseppe Conte avrebbero, in cuor loro, una ‘voglia matta’ di far cadere il governo Draghi e, peraltro, per la stessa identica ragione: recuperare consensi e soprattutto voti in vista delle prossime elezioni politiche, ma è un lusso che solo con grande fatica si possono permettere: molto probabilmente, non lo faranno.

Analizziamo le convulsioni interne in entrambi i partiti, partendo dallo scontro più feroce, quello che proprio ieri è deflagrato dentro i 5Stelle.

Conte e Di Maio sono arrivati allo showdown

Dopo le percentuali da prefisso telefonico prese dal Movimento alle recenti elezioni (primo turno) amministrative e dopo qualche giorno di silenzio ha parlato il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio.

Quella che è scoppiata è una vera e propria ‘resa dei conti’ tra il capo del Movimento (Conte) e ‘l’ex capo’ (Di Maio) che cova, in realtà, dalla divisione sull’elezione del Presidente della Repubblica, con Conte che cercava l’asse con Salvini (sulla Belloni) e Di Maio che lo stoppava.

Uno scontro latente, fatto di posizionamenti, battute e stilettate che ora è però diventato palese. Il ministro degli Esteri ha aspettato qualche giorno prima di dire la sua ma ieri ha rotto il silenzio: «Non abbiamo mai brillato alle amministrative ma non siamo mai andati così male. Non si può dare sempre la colpa agli altri. Non si può risalire all’elezione del presidente della Repubblica per dire che le cose sono andate così male. Credo che bisogna assumersi delle responsabilità». Una accusa neanche troppo velata alla lettura che Conte dà della sconfitta.

Per Di Maio «serve più inclusività nel M5s, dovrebbe fare un grande sforzo di democrazia interna. Non veniamo da una storia che si è distinta per democrazia interna ma proprio per questo, rispetto anche a un nuovo corso, servirebbe più inclusività e più dibattito interno». Infine, l’accusa più pesante: «Non credo si possa stare nel governo e poi un giorno sì e uno no, per imitare Salvini, attaccare il governo». 

Parole a cui Conte ha voluto subito replicare convocando la stampa nella sede del Movimento nel centro di Roma: «Se Di Maio sta uscendo dal Movimento per fondare un nuovo partito ce lo dirà lui… Che faccia lezioni di democrazia interna adesso a questa comunità fa sorridere, visto che quando era leader Di Maio c’era un solo organo: il capo politico». E ancora: «Ho sentito dire che la posizione del M5s è antiatlantista e mette in difficoltà il governo. Sono stupidaggini. Significa offendere un’intera comunità. Non abbiamo mai messo in discussione la nostra vocazione europeista e atlantica». Siamo, dunque, arrivati al dunque. Un movimento nato antisistema, cresciuto fino a conquistare il Palazzo e a governare per tre volte di fila (di cui due in parziale coabitazione) può funzionare solo se esiste all’opposizione. Ed è lì che, prima o poi, Conte lo vuole condurre. Di Maio ‘sente’ che Conte si prepara, presto o tardi, a ‘sganciarsi’ dal governo e, dunque, prepara la contromossa, e cioè una scissione dell’ala filogovernativa e moderata.

Le mosse di Conte: nomine e tetto ai due mandati

L’ex premier, però, incassa una parziale vittoria: resta a capo del M5s, e dunque mette nel cassetto l’idea di una lista persona, questa la decisione del tribunale di Napoli contro gli attivisti ricorrenti, e può dunque, forte della sua elezioni bis (dopo la prima, annullata dalla prima sentenza), procedere alle nomine interne: guarda caso, dalla nomina dei 20 coordinatori territoriali regionali (e, presto, anche da quelli provinciali) mancano i dimaiani, tutte le altre aree interne sono rappresentate. La reazione è immediata: “ci vogliono buttare fuori”.

Ha fatto poi scalpore la dichiarazione di uno dei vicepresidenti, Mario Turco (“senza Conte il M5s non esiste”), altro colpo al cuore per Di Maio. Ma soprattutto è evidente l’accelerazione di Conte sul voto agli iscritti, da tenere entro fine giugno, sul tetto del secondo mandato ai parlamentari e le possibili deroghe (cioè se sia possibile un terzo, come e a quali condizioni). E’ il voto sulla ‘regola delle regole’ che spaventa non solo i dimaiani, ma tutti i parlamentari, anche perché – così si capisce dalle parole di Conte – il quesito sarà secco: sì o no all’abolizione della ‘regola aurea’ del Movimento. Con due postille contiane: io non parteciperò al voto e la politica non è una professione. Tutti vanno subito in subbuglio. Conte assicura che, prima, deve parlarne con Grillo, che è contrario ad abolire la norma, e si fa forte di quello che, secondo lui, sarà un altro no ad abolire la norma, quello che detterà il Garante, con l’obiettivo di far passare i dimaiani e Di Maio per ‘poltronisti’ interessati solo a restare attaccati alla sedia. Di Maio ha sentito puzza di bruciato e, dopo giorni di silenzio, ha pensato bene di sparare ad alzo zero. Le truppe parlamentari vivono nello sconforto: Conte non si fa vedere da mesi da loro e tutti temono di essere esclusi al prossimo giro.

Ma se Conte assicura che non vuole far cadere il governo e fa capire che una qualche mediazione, sulla risoluzione sull’Ucraina che il Parlamento voterà prima del Consiglio Ue del 22-23 giugno, si troverà (bandendo, più che l’invio, la parola armi…), non è detto che, se si dovesse realizzare una scissione vera e propria delle truppe fedeli a Di Maio, non si giochi davvero il tutto per tutto, facendo cadere il governo e portando il Paese alle urne, magari a ottobre, sulla manovra di bilancio.

La tentazione di Salvini: far cadere il governo, ma in autunno, sulla manovra di Bilancio

E qui entra in gioco il secondo protagonista della partita, il leader della Lega, Matteo Salvini. La ‘tentazione’ è proprio quella: come due pianeti che si stanno allineando, anche Salvini punta a far cadere il governo non subito, sulla risoluzione sull’Ucraina (a Salvini basteranno, come a Conte, vaghe rassicurazioni sull’offensiva ‘diplomatica’, e non militare), ma a ottobre, in piena sessione di Bilancio e con la manovra economica da scrivere.

Certo, a sentire Enrico Letta, “la minaccia di Salvini è una pistola giocattolo, un’arma spuntata”, ma anche il segretario del Pd riconosce che “può fare danni lo stesso al governo e che mina la convivenza dentro la maggioranza”.  

Salvini, ospite da Vespa, ha attaccato duro sui temi economici (tasse e pensioni), più la giustizia, anche se, alla fine, al Senato, la Lega ha votato la riforma Cartabia con il resto della maggioranza proprio ieri, dicendo: “è dura restare al governo se dopo pandemia e guerra non taglia le tasse, non fa la pace fiscale, non toglie la Fornero”. Richieste inequivoche e pure inaccettabili, per Draghi che non può cedere su nessuno di questi fronti. Salvini, dunque, rinvia lo scontro all’autunno, annunciando il ritorno della Lega, a metà settembre, sul ‘pratone’ di Pontida, dove cercherà di rilanciare il profilo identitario della Lega della prima ora, ma il tema dell’attacco – scandisce – è proprio sui temi economici: “Peseremo la nostra incisività su lavoro, tasse, pensioni” digrigna i denti nel salotto di Vespa. Certo, anche per Salvini, la batosta elettorale, con FdI che sopravanza la Lega dappertutto, al Nord come al Sud, è stata forte, ma il timing indicato (far cadere il governo durante la scrittura della legge di bilancio, il che sarebbe un vero disastro, per i conti come per la stabilità del nostro Paese) è preoccupante. Lo sanno e lo temono pure gli stessi leghisti. E se alcuni ridimensionano le ‘tentazioni’ di Salvini (“Ha solo tanto stress, ma non farà nessuna crisi, nessun Papeete 2, è solo il piglio arciusurato di lotta e di governo, il suo…”), l’ala governista inizia a farsi molte domande.

Le preoccupazioni dell’ala governista della Lega

L’ala governista (ministri e governatori del Nord) sono più preoccupati, che scettici, su iniziative pericolose, da parte di Salvini, per la tenuta di una maggioranza già stressata dalle mattane di Conte.

E quando Salvini ha detto, in una intervista, che “anche loro mi chiedono di uscire dal governo” si sono premurati di far sapere al premier di essere “estrefatti” dalle parole del Capitano, ribadendo che “noi stiamo con Draghi”. Certo è che anche loro hanno le loro pretese, e non sono poche. Dopo i ballottaggi annunciano di volere un netto cambio di linea: il loro maggiore coinvolgimento nella linea del partito, far ripartire i congressi locali, tornando a parlare al popolo del Nord, e un comitato politico in vista delle politiche 2023 sulle candidature da sottoporre a tutto il partito che sa tanto di ‘direttorio’ in funzione anti-Salvini per impedire che imponga da solo i nomi in lista.

La contro-replica dei salviniani è presto detta: “i governatori sono andati male anche in casa loro e dove si sono impegnati in prima persona, di cosa parlano? Zaia ha perso quasi ovunque in Veneto e Fedriga in Friuli va a braccetto con Meloni. Dove Giorgetti è andato a fare campagna elettorale ha perso” e via così, tra accuse, veleni e sospetti.

Una cosa è certa: ministri e governatori sono entrati in pressing sull’autonomia differenziata, tema figlio del subbuglio provocato dalla sconfitta, specie in Veneto: “è una richiesta di tutto il Paese” dicono in una nota i governatori, che vogliono che governo e Parlamento si sbrighi ad approvarla. Dice Zaia: “il tema non è la crisi di governo, ma non perdere tempo al governo”.

Ma è ovvio che Giorgetti, Zaia, Fedriga e tutti i governisti non vogliono la crisi: agitarla va bene ma non più di questo.  Vogliono lotta dura sull’autonomia, ma chiedono che vengano rappresentate con maggior forza le istanze del settentrione presso il governo e i ministeri. Come avrebbe detto Zaia, che non vuole rompere con Salvini, al Capitano: guarda che se salta il governo, non ottieni nulla, neppure l’autonomia.

Infine, anche i parlamentari leghisti sono terrorizzati: temono di perdere gli ultimi mesi di stipendio e di non tornare la prossima volta, dati i sondaggi disastrosi e il taglio dei parlamentari. Anche loro farebbero massa critica con i ministri e i governatori contro ogni rottura del governo che potrebbe/vorrebbe mettere in campo Salvini. Alla fine, come dentro il M5s, sono loro che hanno in mano le sorti della legislatura e, anche, una possibile scissione di Lega e M5s in due tronconi che di certo avverrebbe se Salvini e Conte dessero vita ai loro più reconditi pensieri, andando dove li porta il cuore: la crisi di governo.

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