Salute

Covid e disturbi cognitivi: anche dopo un anno può esserci un’alterazione funzionale

17
Febbraio 2023
Di Giampiero Cinelli

I disturbi cognitivi come la nebbia mentale, i vuoti di memoria e la scarsa concentrazione avvertiti in seguito a un’infezione da Covid, ormai lo sappiamo, possono essere attribuiti appunto agli strascichi della patologia. Ma alcune osservazioni suggeriscono oggi che possono presentarsi, o persistere in modo rilevante, anche dopo un anno dalla contrazione del virus. Ciò potrebbe avvenire anche nel caso di una passata infezione non grave, sebbene sia certamente meno probabile.

Tali sintomi si legano in alcuni casi ad alterazioni del metabolismo del cervello e all’accumulo di molecole tossiche per i neuroni tra cui la proteina amiloide, come è emerso da una ricerca su sette pazienti coordinata dall’Università degli Studi di Milano e condotta in collaborazione con il Centro Aldo Ravelli della Statale, l’Asst Santi Paolo e Carlo e l’Irccs Auxologico. Da segnalare comunque che il quadro osservato dai ricercatori indica una modifica della fuzionalità dell’organo, ma non un danno biologico. Dunque la condizione di cui parliamo è reversibile. Peraltro lo studio comprende pochi pazienti, tutto fa pensare che verrà allargata la platea della popolazione indagata, anche con il contributo potenziale di altri istituti.

I ricercatori, guidati dal neurologo Alberto Priori, hanno studiato soggetti ricoverati per Covid che a distanza di un anno dalle dimissioni presentavano ancora disturbi cognitivi rilevati da specifici test neuropsicologici. Questi volontari sono stati esaminati con la metodica di tomografia a emissione di positroni (Pet) per valutare l’attività metabolica di specifiche aree del cervello. Di loro, tre pazienti avevano un ridotto funzionamento delle aree temporali (sede della funzione della memoria), del tronco encefalico (sede di alcuni circuiti che regolano l’attenzione e l’equilibrio) e delle aree prefrontali (che regolano l’energia mentale, la motivazione e, in parte, il comportamento).

In uno di questi pazienti che presentava un disturbo cognitivo più grave è stata anche eseguita una Pet speciale che permette di visualizzare la deposizione di amiloide nel cervello. «L’amiloide è una proteina che quando si accumula nei neuroni ne determina l’invecchiamento precoce e la degenerazione, è implicata nella malattia di Alzheimer», spiega Luca Tagliabue, direttore della divisione di Medicina Nucleare e Radiodiagnostica dell’Asst Santi Paolo e Carlo. «Ebbene nel paziente esaminato la Pet ha rilevato un abnorme accumulo di amiloide nel cervello e particolarmente nei lobi frontali e nella corteccia cingolata, legate a funzioni cognitive complesse e alle emozioni».

Gli autori dello studio hanno inoltre considerato che gli effetti cognitivi non sempre sono il portato di un’alterazione funzionale, ma a volte anche un contraccolpo di tipo psicologico, dato dalla reazione al forte stress. In virtù dei casi più delicati, invece, ora l’interesse dei ricercatori è determinare se il Covid possa causare malattie neurodegenerative vere e proprie o favorirne l’insorgenza futura. Tuttavia anche nelle peggiori ipotesi, questi primi dati (insufficienti) mostrano che l’eventualità è maggiore con le varianti più aggressive (ante-omicron).

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