Politica
Trump e Gaza: tregua raggiunta, ma è presto per l’euforia
Di Beatrice Telesio di Toritto
Il cessate il fuoco raggiunto tra Israele e Hamas è il risultato di settimane di manovre coordinate da Donald Trump e da un gruppo ristretto di negoziatori americani e arabi. Più che la diplomazia classica, è stata applicata una strategia tipica del settore immobiliare: ottenere un “sì” di principio e rimandare i dettagli. Un metodo che ha permesso di superare resistenze storiche, costringendo Benjamin Netanyahu e la leadership di Hamas a firmare un testo che nessuno dei due probabilmente avrebbe voluto sottoscrivere così presto.
A fine settembre, a margine dell’Assemblea generale dell’ONU, Trump ha incontrato rappresentanti di paesi arabi, Turchia, Pakistan e Indonesia. Da lì è circolato un piano in venti punti, già discusso in passato ma mai formalizzato: scambio di ostaggi e prigionieri, ritiro graduale dell’esercito israeliano, fine del governo di Hamas a Gaza. La differenza non stava nel contenuto, ma nella determinazione con cui Stati Uniti e partner regionali lo hanno imposto, presentando l’intesa come un fatto compiuto e rendendo politicamente troppo costoso un rifiuto.
Dietro questa operazione non c’è stato solo il presidente. Jared Kushner, genero di Trump ed ex architetto degli Accordi di Abramo, è tornato al centro della scena accanto a Steve Witkoff, negoziatore di fiducia e immobiliarista newyorkese. È stato il loro approccio “da real estate” a plasmare il processo: puntare al consenso di massima, posticipare i dettagli, manifestare ottimismo per rendere politicamente insostenibile un rifiuto. Paesi arabi e Turchia hanno contribuito in modo decisivo con l’idea di un “Consiglio di pace” internazionale presieduto da Trump per la ricostruzione di Gaza.
Sul piano politico il bilancio appare contraddittorio. Trump può rivendicare un trionfo simbolico che rafforza la sua immagine internazionale e persino le sue aspirazioni al Nobel per la pace. Netanyahu ne esce tutto sommato indebolito, fermo a un accordo a cui forse non avrebbe sottoscritto se non fosse stato per la convinzione americana. Hamas, pur restando sotto osservazione, ottiene un risultato non marginale: la liberazione di migliaia di detenuti e la possibilità di sopravvivere politicamente al conflitto.
Eppure una cosa va detta chiaramente, la guerra sembra in pausa e questa è a livello più alto una vittoria su tutti i fronti. Come ci si sia arrivati, in questo momento, passa in secondo piano.
Gli osservatori più accorti però mettono in guardia dall’euforia. L’accordo riguarda soltanto la “fase uno”: cessate il fuoco, scambio di prigionieri, ritiro parziale. Restano ancora aperte le questioni decisive, dal disarmo di Hamas alla ricostruzione della Striscia fino al futuro assetto di governo. Il rischio è che l’intesa si riduca a un successo effimero, destinato a crollare non appena i nodi veri torneranno al centro della trattativa.
Il precedente di gennaio, quando un cessate il fuoco negoziato da Trump crollò in poche settimane, resta un monito. Se la “fase due” dovesse fallire, il piano rischierebbe di essere ricordato come un capolavoro di scenografia politica più che come un passo reale verso la pace. L’accordo rappresenta certamente un punto di partenza, ma non certo un traguardo definitivo. Si tratta di un processo lungo e complesso, con esiti che rimangono altamente incerti. In questa fase, la prudenza è fondamentale, ma è ormai chiaro che, dopo il 7 ottobre, senza una risoluzione politica duratura della questione palestinese, basata sulla soluzione dei due stati, la pace e la stabilità in Medio Oriente resteranno un obiettivo lontano.





