Politica

Tra regionali e primarie. Il Pd perde, ma ‘meno’ degli altri, ed esulta. I dati e l’isolamento politico. Numeri reali e sondaggi

15
Febbraio 2023
Di Ettore Maria Colombo

La mezza verità di Letta sulle Regionali…
Nel Pd ogni tanto le imbroccano, almeno dal punto di vista mediatico. Riuscire a far passare due sonanti sconfitte (in Lazio e Lombardia) per due ‘non vittorie’ (Bersani dixit) o, addirittura, due ‘pareggi’ rispetto a un centrodestra dilagante è un miracolo delle fede, ma il Pd ci è riuscito.

Come dice Enrico Letta, snocciolando quelli che lui giudica “dei fatti”, “i nostri due candidati in Lombardia e Lazio ottengono più voti delle scorse regionali. Le nostre liste, oltre il 20%, prendono più delle politiche”. Conclusione tutta politica: “Il Pd la sua parte l’ha fatta. M5s e Terzo Polo non hanno voluto coalizzarsi, dimezzano i voti e se la prendono con noi”. Il tweet di Letta contiene, però, una serie di imbarazzanti verità ‘orwelliane’ (cioè vere solo per chi le pronuncia).  

I dati delle liste dem in numeri assoluti
Semplicemente, il Pd perde ‘meno’ degli altri (M5s e Terzo Polo), ma perde comunque, e male. In Lombardia, con un’affluenza al 41.7 (3.339.019 votanti), contro quella altissima del 2018 (73,1%, 5.766.459) prende 628.774 voti (contro 1.008.560, quasi la metà in meno) e il 21,8% eleggendo 17 consiglieri contro il 19,2% e 15 consiglieri (ma ce ne erano in più due della lista Gori nel 2018, quindi è patta) la volta prima. In Lazio (dove il crollo dell’affluenza segna 37,2%, 1782.480 voti contro il 66,6% e 3.181.235 voti del 2018) il Pd prende 313.023 voti e segna 20,2% eleggendo appena dieci consiglieri contro i 539.131 voti (meno della metà) e il 21,2% che portò 18 consiglieri (più tre della lista Zingaretti) cinque anni fa. Anche rispetto alle Politiche 2022, il Pd perde ma oggettivamente contiene le perdite (erano 971.846 i voti in Lombardia alla lista dem, il 19% e 496.103 a quella in Lazio, pari al 19,3%) sempre scontando il calo, però ben più contenuto, dell’affluenza (70,1% Lombardia, 63,4% Lazio). In pratica, l’emorragia di voti, rispetto alle Politiche, è contenuta in Lombardia (-23%) e, invece, un vero tracollo in Lazio (-40% dei voti). Solo in termini percentuali, dunque, e solo sulle politiche, il Pd può dire di aver ‘migliorato’ i suoi risultati (20,2% in Lazio e 21,8% in Lombardia contro una media del 19%), non in voti assoluti.

Ma M5s e Terzo Polo fanno molto peggio…
Solo che – per non tediare il lettore evitiamo di mettere le cifre assolute – M5s e Terzo Polo sono riusciti a fare di molto peggio. Sulla base delle sole percentuali e solo in relazione alle Politiche, in Lombardia il M5s perde il 70% dei suoi voti e il Terzo Polo ne perde il 54% mentre, nel Lazio, l’M5S perde il 67% dei voti, il Terzo Polo il 66%.

In Lombardia la federazione di Carlo Calenda e Matteo Renzi aveva scelto la corsa solitaria con l’ex ministra azzurra Letizia Moratti nel chiaro intento di “rubare” voti ai moderati delusi del centrodestra, ma si ferma al 9,8%. E in più nel voto di lista precipita dal 10% raccolto alle politiche a un misero 4,2%. Sempre in Lombardia il M5s, che appoggiava il candidato dem Pierfrancesco Majorino, crolla dal 7,5% a meno del 4%. Stesso scenario ma ad alleanze invertite nel Lazio: il Terzo polo, che qui ha appoggiato la candidatura del dem Alessio D’Amato, cala dall’8,4% a meno del 5% mentre il M5s, che ha tentato l’avventura solitaria con Donatella Bianchi nel chiaro intento di trasformare in voti reali il sorpasso sul Pd registrato nei sondaggi nazionali, crolla dal 15% delle politiche all’8,6%.

Gli errori di strategia nelle alleanze dem
Uscendo dall’arido computo delle cifre, si può anche dire che il Pd ha completamente sbagliato la strategia delle alleanze. Premesso che, oggettivamente, l’ipotesi di un campo ‘larghissimo’ (Pd-M5s-Terzo Polo-sinistra) era impraticabile in entrambe le due regioni, i dem avrebbero dovuto comportarsi all’opposto di come si sono mossi: cercare l’alleanza con il Terzo Polo – e, quindi, sì, anche con l’ex azzurra Moratti – in Lombardia, terra moderata e riformista per eccellenza, e invece giocare la carta della continuità con la giunta Zingaretti in Lazio (dove da anni il governo regionale si reggeva solo grazie ai voti dei 5Stelle) stipulando un’alleanza con Conte e ‘tagliando fuori’ un Terzo Polo che, in Lazio, neppure alle Politiche aveva brillato.

Sia chiaro che la somma, puramente aritmetica, del centrosinistra più Terzo Polo in Lombardia (33,9% di Majorino più 9,8% della Moratti: 43,7) e del centrosinistra più M5s in Lazio (33,5% D’Amato più 10,7% della Bianchi: 44,2%) non avrebbe in ogni caso garantito la vittoria dei due candidati dem, entrambi già votati alla sconfitta.

L’alto astensionismo ha picchiato a sinistra
Non a caso, il fenomeno dell’astensionismo ha colpito più le forze di opposizione che quelle di governo, smontando le facili profezie di un governo e di una maggioranza già percepiti come divisi, già alle corde e già col presunto fiato corto.

Ha sicuramente pesato, l’alta astensione, che secondo molti osservatori è stata una «astensione asimmetrica», ossia più alta tra gli elettori del centrosinistra, molti dei quali sono rimasti a casa a causa delle divisioni del loro campo che hanno impedito l’accordo su una candidatura che potesse essere competitiva. L’esito scontato e la politica delle alleanze a geometria variabile non hanno pagato in termini di partecipazione, colpendo in modo particolare il centrosinistra.

Infine, va detto che se il tanto evocato ‘sorpasso’ – nei sondaggi nazionali, almeno – del M5s sul Pd nel Lazio non c’è stato e il tentativo del Terzo polo di sconfinare nelle terre del centrodestra in Lombardia neanche, per il Pd non può definirsi un bel giorno quello in cui si devono incassare due pesanti sconfitte – con oltre 20 punti di distacco – e la perdita di una regione governata in prima persona negli ultimi 10 anni con l’ex segretario eletto con le primarie Nicola Zingaretti.

Il Pd, però, si percepisce come ‘ancora vivo’
Insomma, tutt’al più si può dire che se queste regionali avevano anche il significato di un test interno all’ex “campo largo”, il Pd si può consolare dicendo di aver vinto ipotetiche primarie di coalizione nel campo degli sconfitti.

Nonostante la vacatio della leadership dovuta al lunghissimo congresso che si concluderà con le primarie tra Stefano Bonaccini e Elly Schlein del 26 febbraio e nonostante il calo nei sondaggi nazionali in favore del M5s, alla prova dei primi voti reali dopo le politiche del 25 settembre, però, il Pd si ‘sente’ e si ‘percepisce’ ancora vivo.

M5s e Terzo Polo continueranno a negarsi…
Il guaio è che, con alle viste una sola elezione importante, nei prossimi 5 anni, le europee, dove si vota con un sistema pienamente proporzionale, M5s e Terzo Polo non hanno alcuna intenzione di stringere alleanze con il Pd, chiunque ne diventi il segretario. Anzi, si può facilmente prevedere che Giuseppe Conte, contando sul fatto che il M5s è sempre andato meglio nel voto nazionale di opinione rispetto al voto locale, continuerà la sua politica “solitaria” nel campo della sinistra ecologista e di protesta almeno fino alle europee del 2024: l’obiettivo per lui resta quello di massimizzare il consenso per conquistare la premiership del futuro centrosinistra. Quanto al Terzo polo, se le velleità di sfondare nel campo avversario sono rimaste appunto solo velleità, la strada a senso unico che Calenda e Renzi cercano – al netto dei dissapori tra i due leader – è quella dell’alleanza con il Pd in posizione subordinata.

Restano doppia sconfitta e perdita di centralità
Molto più onestamente, il segretario in pectore Stefano Bonaccini riconosce che «Il Pd ha perso nettamente, certo, ma Calenda e i 5 Stelle devono porsi il problema che, avendo perso peggio del Pd, senza il Pd non vanno da nessuna parte». Insomma, resta il punto – e l’orgoglio – di una centralità del Pd che, però, resta un partito, se va bene, che veleggia intorno al 20% e, se va male (come dicono i sondaggi nazionali) crolla al 15%. Anche il Pci, che però veleggiava su medie del 30% e rotti di voti, si riteneva ‘centrale’ per ogni ipotesi di alternativa programmatica alla Dc, ma riscontrata l’impossibilità di coagulare l’intera sinistra intorno a sé si acconciò al compromesso storico, persino quando era all’apice della forza. Ritenersi ‘centrale’ dall’alto del 20% dei consensi è impresa assai più ardua, decisamente velleitaria.

Resta, dunque, per il Pd una doppia sconfitta: la doppia sconfitta elettorale (oggi il quadro delle Regioni dice 15 al centrodestra, 4 al centrosinistra, mai state così poche da quando c’è l’elezione diretta dei governatori) e lo sfarinamento dei possibili alleati ai suoi fianchi che non vogliono allearsi né riconoscere al Pd nessuna primazia nel campo dell’opposizione. Insomma, per il Pd nessun motivo di ottimismo.

I dati delle primarie e i sondaggi contrapposti
Resta da dire, ovviamente, delle imminenti primarie. Infatti, tocca ora a Stefano Bonaccini o a Elly Schlein, i due sfidanti alle primarie nei gazebo del 26 febbraio, indicare la strada della riscossa. Sono loro, infatti, i più votati nei circoli, primo round del congresso dem, anche se mancano ancora gli iscritti laziali e lombardi che hanno avuto una settimana in più per esprimersi, proprio a causa del voto alle regionali. Bonaccini ha avuto il 54,35% e Schlein il 33,70 mentre gli altri due candidati, ormai prossimi all’esclusione dalle primarie aperte, hanno ottenuto il 7,46% Gianni Cuperlo e il 4,46% Paola De Micheli. E la partecipazione è stata buona: hanno già votato circa 130 mila tesserati (127 mila per la precisione) che potrebbero arrivare a 150 mila. Il che, però, vuol dire meno della metà degli iscritti dell’ultimo dato disponibile (320 mila nel 2021). Adesso, comunque, occhi puntati sui gazebo, che assegneranno la leadership dem. Dai primi dati, la Schlein è più forte nelle città (vince a Genova, Napoli, Firenze, Verona, Catania, Venezia, etc.), Bonaccini nelle province (specie in Emilia-Romagna più tutto il Sud), Cuperlo vola a Trieste.

Ma le primarie aperte saranno tutt’altra gara. Un sondaggio Winpoll, pubblicato ieri da La Stampa, vede la Schlein incredibilmente in vantaggio (56,3% contro 43,7%) ma la società che l’ha fatto (Winpoll) viene immediatamente definita dal fronte di Bonaccini come ‘vicina’ alla candidata. E immediatamente i bonacciniani ne tirano fuori un altro di Emg che vede Bonaccini al 63-67% contro il 33-37% di Schlein e un 33% di indecisi. Soprattutto, la percentuale dei votanti, indicata tra 900 mila e un milione e 300 mila, è molto bassa e in continuo calo. Potrebbe attestarsi sul milione. Considerando che, alle primarie del 2019, votarono in un milione e 600 mila, quando venne eletto Zingaretti, anche questo sarebbe un brutto colpo, per il Pd. Con la metà degli iscritti di due anni fa e meno della metà dei votanti alle primarie di quattro anni fa, i dem subirebbero un altro colpo d’immagine che ne testimonierebbe, oltre alle difficoltà politiche di vincere elezioni e stringere alleanze, la debolezza numerica. Chiunque vinca rischia di farlo su troppe macerie. Perché se governare logora, anche stare troppo all’opposizione ed essere percepito sempre come perdente non aiuta di certo a rialzarsi da terra. 

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