Politica

Salvini assolto: dove finisce la legge, dove inizia la politica?

18
Dicembre 2025
Di Giuliana Mastri

Matteo Salvini è stato definitivamente assolto dall’accusa di sequestro di persona nel caso che riguardava la Ong Open Arms. La sollevazione dalle accuse è stata confermata dalla Cassazione su richiesta della Procura generale. Questa è la cronaca giudiziaria. Ma quali sono i risvolti politici, soprattutto comunicativi? Un’analisi l’ha proposta Domenico Giordano su Il Riformista, esperto di comunicazione politica e amministratore di Arcadia. Secondo Giordano, il vicepremier la tratta per quello che per lui è: un gancio. Non per tornare a discutere in modo ossessivo di una singola vicenda giudiziaria, ma per rimettere al centro un conflitto che, nella sua lettura, resta strutturale e irrisolto nella Repubblica: dove finisce la sovranità della politica e dove comincia, legittimamente, l’ingerenza del potere giudiziario.

Giordano però ci tiene a ricordare che la separazione dei poteri non è un orpello da manuale, è un presupposto di libertà. Per questo chiama in causa Montesquieu e la sua formula essenziale: non c’è libertà se il giudiziario non è separato dal legislativo e dall’esecutivo. Poi aggancia quel principio all’equilibrio costruito dai Costituenti, che lui descrive come un sistema pensato apposta per tenere insieme due esigenze potenzialmente esplosive: magistratura autonoma e indipendente, sì, ma anche protezione del mandato parlamentare contro l’uso “distorsivo” della leva penale.

Qui il punto non è difendere i politici “in quanto tali”, ma non banalizzare la logica di contrappeso: l’autonomia della magistratura, consacrata dall’articolo 101, aveva come naturale contraltare l’articolo 68, che sottraeva i parlamentari al rischio di essere perseguiti per l’esercizio delle funzioni. Due pilastri, nella sua ricostruzione, concepiti fin dall’inizio non come privilegi di casta e contrappesi “a sentimento”, ma come parti complementari di un impianto che dovrebbe evitare le invasioni di campo.

Il passaggio decisivo, secondo l’autore, arriva nel 1993. L’anno spartiacque emotivo prima ancora che giuridico: la stagione di Tangentopoli, l’opinione pubblica in ebollizione, la pressione politica e mediatica. In quel clima, l’abolizione dell’autorizzazione a procedere riscrive “in larga parte” quella pagina e produce uno sbilanciamento: il potere giudiziario può investire la sfera politica senza più incontrare un filtro parlamentare. Da lì, dice in sostanza, la cronaca repubblicana cambia natura: non più alternanza tra maggioranze e opposizioni, ma un rosario continuo di procedimenti che, a prescindere da come finiscano in tribunale, nel frattempo hanno il potere di sconquassare assetti, condizionare governi, deformare la dialettica democratica.

Ed è su questo “a prescindere da come finiscano” che Giordano insiste davvero. L’esito finale non basta a misurare l’impatto politico-istituzionale. Gli esempi? Il catalogo dei processi di Silvio Berlusconi, oltre trenta, quasi tutti chiusi con assoluzioni o prescrizioni e una sola condanna definitiva. Poi il caso Andreotti, con la distinzione tra proscioglimento per i fatti successivi al 1980 e prescrizione per quelli anteriori. Più recente la vicenda di Matteo Renzi e della Fondazione Open, vicenda chiusa nel dicembre 2024 con un proscioglimento totale dopo cinque anni di indagini.

Dunque l’autore specifica che non se la prende con l’obbligatorietà dell’azione penale e non mette in discussione l’indipendenza della magistratura. Il bersaglio, nel suo ragionamento, è più sottile e insieme più pericoloso: l’assenza di un criterio certo che distingua atto politico e atto amministrativo. Oggi quella distinzione è rimessa alla discrezionalità del giudicante, e quindi diventa una zona grigia dove il confine può spostarsi caso per caso. Se il confine si sposta, allora anche l’esposizione della politica al rischio giudiziario diventa variabile, imprevedibile, potenzialmente paralizzante.

Da qui l’appello: serve un intervento del legislatore “indifferibile” che dirima l’incertezza. Non una riformetta cosmetica, ma una soluzione capace di rendere riconoscibile e difendibile la frontiera tra decisione politica e atto amministrativo. E nella stessa logica, Giordano propone l’idea di un’immunità funzionale: non una zona franca permanente, non un salvacondotto per qualsiasi cosa, ma un meccanismo che sospenda i procedimenti relativi ad atti compiuti nell’esercizio del mandato fino alla sua conclusione, in modo da preservare continuità dell’azione di governo e stabilità istituzionale. La condizione, nel testo, è chiara: niente protezione per reati comuni o per le flagranze. Quindi, nella narrazione dell’autore, non è un “liberi tutti”, è un congelamento limitato che prova a evitare che il processo diventi il vero tempo della politica.

Una proposta che non vuole apparire un privilegio, ma come un ritorno all’equilibrio originario disegnato dai Costituenti. In sostanza, magistratura e politica possono coesistere “armoniosamente” solo se ciascuna resta sovrana nel proprio alveo, senza invasioni di campo. Il punto, non è ridimensionare la giustizia, ma impedire che una funzione dello Stato finisca per schiacciare l’altra in modo sistematico, grazie a un vantaggio strutturale costruito dopo il 1993.

L’epilogo di Open Arms, Giordano lo usa come esempio emblematico per dire che la storia si ripete: procedimenti che esplodono, spaccano maggioranze, avvelenano il Paese, e poi magari si sgonfiano “come bolle di sapone”. Domenico Giordano in conclusione sottolinea: la separazione dei poteri non è un feticcio liberale da citazione dotta. È la condizione perché esista libertà, e la libertà è la condizione perché esista democrazia. E ne va dell’architettura dello Stato.