Politica

Diffidenza per i “piani” centralizzati, meglio creare un ambiente entrepreneur-friendly

02
Febbraio 2021
Di Daniele Capezzone

Come spesso gli capita, il direttore del Sunday Telegraph Allister Heath coglie nel segno. La scorsa settimana ha evocato la celeberrima pallottola di Sarajevo, quella che colpì l’arciduca Francesco Ferdinando, e che divenne l’innesco della Prima Guerra Mondiale. Non solo, annota Heath: quel casus belli pose fine a un quarantennio, a un’intera fase economica globale.

Ecco, mutatis mutandis (e naturalmente c’è tantissimo da cambiare rispetto a quel parallelo storico), anche l’impatto del Covid, poco più di un secolo dopo, rischia di essere ricordato a lungo. Non avrà innescato la Terza Guerra Mondiale, ma ha certamente messo in archivio le certezze economiche e geopolitiche su cui tanti avevano fatto affidamento dopo il 1989, con la caduta del Muro di Berlino.

E’ fin troppo banale evocare la sfortunata teoria della “fine della storia”, smentita in un ventennio da tre episodi chiave. Se già l’11 settembre 2001 aveva fatto capire che (a causa dell’arma terroristica) saremmo entrati in un secolo incerto e carico di oscuri presagi; e se già la crisi finanziaria del 2008 e degli anni successivi aveva mostrato le fragilità del quadro economico globale; la pandemia di questo 2020-2021 ha non solo creato panico sanitario, ma sta dispiegando effetti economici devastanti.

Non si tratta, dice bene Heath, solo della catena di fallimenti e di posti di lavoro persi. Non si tratta solo del crollo del Pil in mezzo mondo. E non si tratta solo del vantaggio competitivo che, per paradosso, proprio la Cina rischia di aggiudicarsi sui sistemi liberaldemocratici e di mercato.

No, c’è di più. Rischia di cambiare la struttura stessa di molti mercati, per come li avevamo conosciuti. Attività e settori trainanti (trasporto aereo, voli low cost, turismo, ristorazione) sono stati trascinati nel disastro. Peggio ancora: visto il precedente, in caso di nuova pandemia (o più probabilmente di falsi allarmi futuri) sarà fin troppo facile per le autorità imporre nuovi lockdown, gettando di nuovo quelle stesse attività nel pozzo di un rischio elevatissimo e di un’incertezza assoluta. La stessa “naturalezza” con cui abbiamo subìto un’espansione dei pubblici poteri ai limiti dell’arbitrio espone tutta l’economia a nuove variabili, a oscillazioni imprevedibili di valore a seconda di eventi letteralmente non prevedibili.

E allora? Serve a poco, a mio avviso, evocare Schumpeter e la “distruzione creativa”. Anche perché occorre mettersi nei panni di chi sente sulla pelle la “distruzione” e non vede il processo “creativo”. Né, in tempi così incerti, esiste qualcuno così illuminato da poter sapere – con ragionevole certezza – quali settori saranno trainanti, e per quanto tempo.

Dunque, siamo destinati a fare i conti con due visioni opposte. La prima tende ad attribuire agli stati e a entità sovranazionali, in una logica costruttivista e dirigista, il potere di determinare investimenti, allocazioni di risorse, piani di sviluppo. Ma siamo certi che si tratti della scelta più saggia? C’è da dubitarne, e non solo per argomenti liberali classici, ma anche per un minimo di pragmatico scetticismo: nemmeno il ministro più illuminato, nemmeno il commissario europeo più lungimirante e fortunato può essere certo di indovinare i settori su cui puntare. E allora, forse, meglio puntare sulla seconda strada: ad ogni livello, in primo luogo in ambito nazionale, si crei un ambiente “entrepreneur-friendly”, a tasse basse e a regolazione leggera. Si faccia il possibile, in termini fiscali e normativi, per favorire la nascita di imprese, o la loro trasformazione. Si dia energia e spazio e respiro al settore privato, che poi saprà cercare strade e percorsi profittevoli.

Forse, occorre un po’ di sana diffidenza verso chi propone piani di “politica industriale”. Se proprio si vuole usare questa espressione, la si declini in senso “libertario”: e cioè incoraggiando i governi e i legislatori a creare le condizioni (in termini di tasse e regole) più favorevoli a qualunque tipo di intrapresa. Più di questo, è difficile fare: e anzi sarebbe già tantissimo e altamente meritorio.