Politica

Primarie Pd. Per i sondaggi non c’è partita: vince Bonaccini

21
Gennaio 2023
Di Ettore Maria Colombo

A stare ai sondaggi non c’è partita: Bonaccini avanti sulla Schlein e di molte lunghezze… 

A stare a tutti i sondaggi, almeno i principali (tranne uno, come vedremo poi) non c’è partita. Nella corsa alla nuova leadership del Pd il governatore dell’Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, è davanti di moltissime lunghezze sulla sua principale competitor, Elly Schlein. Un distacco consolidato, forte e non colmabile. Già una settimana fa due sondaggi dicevano quello che, a naso, già si sapeva. Il primo (Emg per la trasmissione di Rai 3 Agorà) fissava il distacco tra i due in 17 punti (41 a 24) con le briciole per gli altri candidati (Paola De Micheli al 10 e Gianni Cuperlo al 6). Per Ipsos (diffuso su La 7 a Di Martedì) il distacco sarebbe ancora maggiore: Bonaccini al 32% contro la Schlein al 11% (quindi poco sopra Cuperlo, qui dato all’8% mentre De Micheli sarebbe ultima con il 5%), quasi tre volte sopra la rivale, anche se va detto che i non sa/non risponde arrivano a ben il 43%. 

A chiudere, almeno all’apparenza, i giochi, ci pensa un nuovo sondaggio Emg diffuso solo ieri. Il governatore emiliano sarebbe davanti con una forbice del 61-65% mentre la sua avversaria veleggia tra il 35-39% dei consensi (che non è poco) con un terzo dei possibili votanti (cioè gli elettori dem che dichiarano di andare alle primarie) ancora indeciso, cifra ragguardevole, e una previsione di votanti di 900 mila persone. Parliamo qui delle primarie aperte del 26 febbraio, quelle in cui possono votare anche i non tesserati al Pd, non certo delle primarie chiuse. 

L’ultimo sondaggio Emg, realizzato tra il 9 e il 13 gennaio scorso, chiede anche quale sia il miglior candidato per il Nazareno. Qui le risposte sono ancora più chiare. Stefano Bonaccini riceve un gradimento del 36%. Elly Schlein l’8, Gianni Cuperlo il 7, Paola De Micheli il 3. Indecisi il 20. Non indica nessun nome il 26% dei votanti. Insomma, per Bonaccini la vittoria sarebbe sicura e con un effetto ‘a valanga’ difficile da fermare.

Schlein si aggrappa a una sola rilevazione…

L’unico sondaggio, in tutto questo mese di diverse rilevazioni, in controtendenza è una rilevazione della società Winpoll che, invece, prospetta una gara molto più aperta e contesa. 

Lo scorso 17 gennaio Winpoll ha intervistato un campione di mille potenziali elettori dem, restituendo una partita apertissima. Stabilito che Bonaccini resta, tra i quattro sfidanti, il più conosciuto, con l’85% di notorietà (che si porta dietro il 78% di fiducia) contro Schlein al 76 (e il 74 di fiducia), Cuperlo al 70, De Micheli al 42, ai gazebo, dove saranno chiamati a misurarsi i due candidati più votati dagli iscritti, il ballottaggio sarà quasi certamente fra Bonaccini e Schlein, ma distanziati al momento da tre sole incollature: 51,5 a 48,5. Margine che rientra nell’errore statistico. La sinistra interna spera per sovvertire il risultato e completare la remuntada, ma un sondaggio solo non basta a far primavera, senza dire del fatto che la società Winpoll è di un assessore veronese vicino alla pasionaria Schlein. 

Il problema è quanta gente andrà a votare…

Ma se i sondaggi lasciano sempre il tempo che trovano molto più problematico è capire quale sarà la effettiva platea congressuale delle primarie. Numeri precisi, ad oggi, non ce ne sono. Anche se il tesseramento 2022 (prorogato fino al 31 gennaio 2023 e aperto a partiti e associazioni fino ad oggi esterne al Pd come Articolo 1 e Demos) dovesse raddoppiare i numeri informali che giravano fino a un mese fa (appena 40-50 mila iscritti) la stima, per quanto prudenziale, è che non oltre e non tutti i possibili 90/100 mila iscritti parteciperebbero alle primarie ‘chiuse’ (si vota tra il 3 e il 12 febbraio, con l’eccezione di Lazio e Lombardia, dove causa la coincidenza con le elezioni regionali si voterà fino al 19/02).  

Se va bene, potrebbero essere circa 900 mila (un milione nelle più rosee previsioni) i partecipanti alle primarie ‘aperte’ del 26 febbraio. Un numero, in ogni caso, in calo drammatico rispetto a tutte le consultazioni precedenti, dove si è sempre rimasti abbondantemente sopra la soglia psicologica del milione di voti (un milione e 600 mila fu il punto più basso alle primarie del 2019 che incoronarono leader Nicola Zingaretti) con punte sui 3 milioni. Una vittoria anche ‘larga’, ma con una affluenza più che dimezzata, sarebbe una vittoria di Pirro proprio per un candidato come Bonaccini che, anche alle regionali in Emilia-Romagna, ha fatto man bassa di consensi ma con l’affluenza in calo. 

Le polemiche di questi mesi sulle ‘regole’…

Eppure, in questi mesi, nella corsa a girare l’Italia che hanno fatto i quattro candidati alla segreteria, più che a snocciolare programmi (arrivati solo ora e last minute, in vista dell’Assemblea nazionale di domani) ci si è attorcigliati su polemiche sterili e sostanzialmente inutili, ben poco comprensibili. 

La prima è stata la querelle sulle regole, il ‘come’ bisognava votare: la mozione Schlein voleva estendere a tutti la possibilità del voto on-line, la mozione Bonaccini voleva negarla (e la De Micheli pure), Cuperlo si è rimesso alla volontà del partito. Si è finito, dopo molto discutere, con un compromesso: un voto on-line ‘parziale’ (per anziani, disabili, persone che vivono lontani dai seggi, cioè dai gazebo, residenti all’estero, etc.), ma ribadendo che il voto principale e ortodosso rimaneva quello dentro i gazebo. E qui, va detto, la mozione Bonaccini l’ha, di fatto, spuntata. 

Lo stanco scontro sulla Carta dei Valori del Pd

Ma la diatriba che più ha acceso gli animi è stata la diatriba sulla nuova Carta dei Valori del Pd, il nuovo manifesto programmatico del partito che, nelle intenzioni, doveva sostituire di sana pianta quello originario, varato dal Pd di Veltroni nel 2007. Due mesi di dibattiti, un comitato di 87 saggi che si sono scritti fitte mail e si sono riuniti in quattro sottocomitati tematici, tre riunioni plenarie durate ore, un chiacchiericcio infinito sui giornali per produrre, dalla montagna, il topolino. Qui, però, l’ha spuntata di più la mozione Schlein che ha ottenuto una serie di modifiche notevoli. 

Anche perché l’ingresso del partito, in via di auto-scioglimento, Articolo 1 di Speranza, Bersani, D’Alema e Scotto aveva posto come conditio sine qua non l’adozione di un ‘nuovo’ Manifesto e, quindi, di un ‘nuovo’ partito, per giustificare agli occhi dei suoi iscritti (13.500) l’ingresso nel Pd, altrimenti per loro insostenibile. E proprioSperanza era stato nominato, da Letta, garante del nuovo processo costituente. Solo che i riformisti si sono opposti, con tanto di barricate, chiedendo che non fosse l’Assemblea nazionale di domani (figlia del ‘vecchio’ Pd) ad approvare il nuovo Manifesto, rimandando la decisione a quella nuova che sarà eletta insieme al nuovo segretario con le primarie, non foss’altro che per evitare di ‘imbrigliare’ il nuovo leader (nelle loro intenzioni Bonaccini, ovviamente) con documenti figli di comitati di saggi e discussioni ‘del passato’, per quanto il passato sia molto recente. 

Il compromesso per ‘tener dentro’ i bersaniani

Alla fine, lo sforzo messo in campo da Letta ha portato a una (precaria) mediazione al fotofinish, cioè proprio a ridosso dell’Assemblea che, oggi, dovrà varare il nuovo documento costituente.

L’orientamento prevalente è quello di mettere ai voti in Assemblea il Manifesto dei valori. Sarebbe, in sostanza, una sorta di sintesi del lavoro della Commissione che in queste settimane ha lavorato sulla Carta fondativa del Pd. Un “passaggio importante”, come lo definisce, appunto, il coordinatore di Articolo 1 Arturo Scotto, per la loro partecipazione alla Costituente. 

Ma, qui sta il barocchismo, il voto dell’Assemblea non chiuderebbe il percorso costituente, anzi. L’intesa ormai consolidata tra i candidati è infatti per allungare la Costituente oltre le primarie per passare poi il lavoro alla nuova Assemblea eletta con le primarie. Proprio per questo motivo, nella scaletta dei lavori dell’Assemblea di sabatodovrebbero essere inseriti gli interventi di alcuni dei ‘saggi’ che hanno fatto parte della Commissione per illustrare il lavoro svolto. Proprio al segretario spetterà di aprire i lavori dell’Assemblea, dove dovrebbero prendere la parola anche i candidati alla segreteria Gianni Cuperlo, Paola De Micheli, Stefano Bonaccini e Elly Schlein per illustrare la propria candidatura. 

Cosa contiene la nuova versione della ‘Carta’: condanna al neoliberismo e Stato regolatore

Ma cosa contiene la ‘nuova’ versione del Manifesto e dunque della Carta dei Valori del Pd? In cima alla lista c’è la lotta alle «disuguaglianze, povertà, discriminazioni e marginalità sociali», anzi la lotta per «l’uguaglianza di fatto» tramite uno strumento d’antan, il forte intervento pubblico di uno Stato «regolatore e innovatore». Insomma, almeno nelle dichiarazioni valoriali, il Pd cambia verso e vira decisamente a sinistra. 

In cima ai propositi del nuovo Pd c’è, dunque, la lotta alle diseguaglianze e lo Stato ‘interventista’: «Siamo convinti che per riconoscere e tutelare i diritti fondamentali siano necessarie nuove modalità di intervento pubblico, che di volta in volta possa assumere forme e avvalersi di strumenti diversi. Uno Stato regolatore e innovatore è in grado di far risaltare la capacità trasformativa delle imprese e del nostro settore produttivo, correggendo ed evitando al tempo stesso i fallimenti di mercato – si legge nella bozza di documento elaborata dal Comitato costituente di 87 membri -. Dobbiamo lavorare per realizzare gli obiettivi di giustizia sociale, inclusione, parità di genere, uguaglianza di fatto, coesione territoriale e sostenibilità ambientale, e per farlo bisogna che il modello di sviluppo economico non sia in contrasto con essi».

Niente di stravolgente, considerando che i lavori del Comitato costituente erano iniziati con l’attacco al presunto “ordoliberismo” e che gli esponenti più a sinistra avevano indicato tra gli obiettivi del nuovo Pd il superamento del sistema di produzione capitalistico. Eppure, la differenza con il Manifesto del 2007 salta agli occhi. Se allora si parlava di «interdipendenza tra impresa e lavoro» e del «ruolo decisivo» delle imprese «per vincere la sfida della competitività e per rimettere il Paese sulla via della crescita», ora la parola crescita è addirittura assente. Quanto al ruolo dello Stato, che ora si vuole fortemente interventista per rimuovere le diseguaglianze, allora si sottolineava, invece, che «compito dello Stato non è interferire nelle attività economiche, ma fissare le regole per il buon funzionamento del mercato, per mantenere la concorrenza anche con politiche di liberalizzazione e per creare le condizioni di contesto e di convenienza utili a promuovere innovazione e qualità». Un altro film, un’altra canzone e tutt’altra storia, dunque. 

Sul piano del mercato del lavoro, c’è il (prevedibile, ma netto) rinnegamento del Jobs Act, la richiesta dell’introduzione del salario minimo, l’ovvio impegno alla lotta contro “lavoro nero, precariato, sfruttamento, lavoro non sicuro”. 

Non è proprio la condanna del cd ‘ordoliberismo’ – come chiedeva la sinistra del partito – ma nel preambolo del documento (non a caso intitolato “Il filo rosso”…) l’enfasi sullo “Stato regolatore” e la condanna ai “fallimenti del mercato” è netta. 

Sparisce anche la “vocazione maggioritaria” 

Certo, in questi 15 anni ne è passata di acqua sotto i ponti, ma la virata a sinistra che si vuole imprimere al Pd non riguarda solo la politica economica ma anche l’idea, la funzione del partito e quindi il bacino elettorale di riferimento. Sparisce così anche la «vocazione maggioritara» di veltroniana memoria, ossia l’ambizione di «proporsi come partito del Paese, come grande forza nazionale» e non solo di una parte, così come sparisce il riferimento alle diverse culture riformiste che allora si unirono. E sparisce anche l’ambizione di riformare il sistema per arrivare a un bipolarismo maturo e a una democrazia decidente. Se nel Manifesto veltroniano era scritto che il Pd è «un partito democratico e riformatore non solo nella sua ispirazione ideale e programmatica, ma anche in quanto attivamente impegnato a promuovere l’evoluzione e la riforma del sistema politico-istituzionale verso una democrazia competitiva, imperniata sulla sovranità del cittadino-elettore, arbitro della scelta di governo», nella bozza del Comitato costituente si fa solo cenno al «compito di difendere la Costituzione, di valorizzare la cultura antifascista da cui nasce e di impegnarci per una sua compiuta applicazione». Insomma, tensione bipolarizzante e vocazione maggioritaria vengono riposte nel cassetto per un Pd che, si percepisce, guarda a un sistema proporzionale sul piano elettorale e a un sistema di alleanze sul piano politico pur se, al momento, mancano entrambe. 

Al netto delle parole, oggi si voterà e, nel caso, i riformisti finiranno in minoranza, anche se forse otterranno l’impegno a rimettere mano al documento dopo le primarie del 26 febbraio e l’elezione del nuovo segretario. L’ennesimo compromesso al ribasso, certo, ma quelli di Articolo 1 possono entrare nel nuovo Pd a cuor leggero: lo ‘spostamento’ a sinistra, almeno nei principi e nella Carta dei Valori, c’è. Spetterà a chi vincerà le primarie, però, decidere se metterlo in pratica, il Manifesto e soprattutto in che modo.