Politica

Il premierato perfeziona senza stravolgere. L’opinione di Paolo Emilio Russo

03
Novembre 2023
Di Paolo Emilio Russo*

Da trent’anni l’approccio alle – necessarie – riforme del nostro sistema istituzionale è stato muscolare. Da una parte presidenzialismo spinto, dall’altra il parlamentarismo con qualche correttivo. È finita sempre allo stesso modo: la maggioranza scriveva il suo testo, per poi provare ad imporlo alle opposizioni, infine i promotori si andavano a schiantare contro il referendum confermativo che, a quel punto, si traduceva in un feroce “o con me o contro di me”. Il risultato è che oggi il nostro Paese si prepara ad affrontare sfide – tecnologiche, geopolitiche e molto altro – impensabili soltanto un decennio fa, con un sistema istituzionale vecchio di 75 anni. La non capacità di spesa che abbiamo avuto rispetto all’incredibile – e irripetibile – occasione del Pnrr ha reso evidente a tutti che l’arretratezza che ci portiamo dietro non era soltanto dovuta alla scarsità di risorse (conseguente al debito eredità della Prima Repubblica ecc.), ma, soprattutto, ad un sistema istituzionale e burocratico analogico in un mondo digitale. Il centrodestra si è presentato agli elettori con un programma di riforme molto “spinto”, risultato di un accordo per il presidenzialismo proposto da Giorgia Meloni e sottoscritto dagli altri due leader, Silvio Berlusconi e Matteo Salvini, il 7 dicembre 2021, meno di due anni fa. Non ce ne sarebbe nemmeno stato bisogno: la presidente del consiglio è a capo di un partito presidenzialista ed è erede di una tradizione fortemente connotata sull’argomento e il fondatore di Forza Italia non solo aveva promosso e fatto approvare una riforma costituzionale in senso semipresidenziale, ma ha interpretato tutta la sua – lunga e vittoriosa – esperienza politica con un protagonismo personale di tipo “presidenziale”, scelta che gli ha aperto più di un conflitto coi diversi Capi dello Stato.

Con un mandato così forte, con una maggioranza così larga, la coalizione di centrodestra che oggi governa il paese avrebbe potuto allinearsi alla prassi e presentare un testo di vera rottura, correndo il rischio di fallire. Invece il governo ha aperto il file “riforme” appena qualche settimana dopo il voto e ha affidato il delicato dossier ad una sensibilità diversa, l’ex presidente del Senato e membro del Csm, Maria Elisabetta Casellati, che è partita dalla fine. La ministra per le Riforme ha prima incontrato le delegazioni di tutti i partiti, poi ha preparato una bozza che potesse apparire come “minimo comun denominatore”. Diciamolo subito: il testo che sarà approvato oggi dal Consiglio dei ministri deluderà gli iper-presidenzialisti all’americana e anche quelli che immaginavano che questa potesse essere l’occasione per “scassare” il Quirinale, vendicando chissà quale torto, vero o presunto. Il ruolo e le prerogative del Capo dello Stato, invece, non cambiano, anche se la nuova proposta mette qualche “paletto”.

La principale novità è che gli elettori voteranno per un candidato premier, che sarà a capo di una coalizione – o di un listone, questo dipenderà dalla legge elettorale -. Chi tra i candidati premier indicati sulla scheda risulterà vincitore sarà nominato Presidente del consiglio e potrà avvantaggiarsi di una maggioranza parlamentare garantita al 55%, una percentuale capace di garantire una “navigazione” serena per 5 anni. Per farlo bisognerà scrivere una legge elettorale maggioritaria con sbarramento alto, ma questa è un’altra storia. In caso di impossibilità a proseguire il mandato, dimissioni o sfiducia del premier non è automatico – come sarebbe piaciuto a qualcuno, ma non ai costituzionalisti – lo scioglimento delle Camere: il presidente della Repubblica potrà infatti proporre al Parlamento un altro premier che concluda la legislatura a Palazzo Chigi. Questi, però, deve essere scelto necessariamente tra gli eletti dentro la coalizione e a condizione di proseguire l’attività di governo con quella stessa coalizione legittimata dalla urne (o al massimo allargata). La norma ribattezzata “anti-ribaltone” mette dunque fuori gioco – e fuori legge – ipotesi tecniche o maggioranze patchwork.

È così che riafferma, anche se a sinistra dicono il contrario, la centralità del Parlamento, che torna ad essere la “porta d’ingresso” del governo e non una succursale dove mandare decreti da convertire il più rapidamente possibile. Quella che prende forma oggi è una riforma gentile ma incisiva, un’occasione che – come Paese, ma anche come classe politica – non possiamo permetterci di sprecare. Il tempo per affinarla e approvarla insieme alle opposizioni c’è, la volontà pure: per portare a compimento tutto l’iter, il “pacchetto” deve essere approvato in prima lettura entro primavera. Dall’ex Terzo Polo sono arrivati segnali positivi, ma il centrodestra deve riaprire il confronto in Parlamento con il Pd e anche con i Cinquestelle, che sono le due forze di opposizione più importati: le regole si scrivono insieme e la proposta che sta per arrivare in Parlamento non fornisce alibi.   

*Capogruppo di Forza Italia in commissione Affari costituzionali della Camera dei deputati