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08
Dicembre 2023
Di Redazione

Non è la prima volta che Mario Draghi viene chiamato in causa per ruoli di sempre maggiore importanza, al fine di impedire che ad accedervi sia qualcuno indicato dal Governo in carica o comunque in una logica di contraddizione con esso. 

A lanciare il titolo è anche stavolta Repubblica: “Il candidato Draghi” è la scelta di oggi, con riferimento al ruolo di prossimo Presidente della Commissione Europea cui verrebbe indicato da Emmanuel Macron. 

A leggere l’analisi sembra l'”uovo di Colombo”: la Francia esprimerebbe un amico nel ruolo più alto della governance europea, la Germania ne sarebbe felice in assenza di candidati forti dell’attuale governo socialista e, infine, la povera “italietta” di Giorgia Meloni non potrebbe che esserne felice, anzi lusingata, potendo così accedere al consesso dei “grandi” che guidano l’Europa. 

Non avendo mai negato il nostro sentimento da “vedova draghiana”, non serve sottolineare quanto non sia in discussione il valore del “candidato” in oggetto, peraltro negli ultimi mesi accostato anche al ruolo di Segretario della NATO, Presidente della Banca Mondiale, Presidente del Consiglio UE etc. etc. Mancava solo quello di CT della Nazionale dopo Mancini. 

Il punto di vista è diverso e riguarda vari aspetti del cosiddetto “vincolo esterno” che si vorrebbe applicare all’Italia, a maggior ragione in un contesto di governo stabile, amico delle istituzioni europee ma in grado di esprimere una dialettica autonoma in nome dell’interesse nazionale. 

Innanzitutto, questa presunta candidatura ha tutto l’aspetto di una self-fulfilling prophecy, tesa a dare per scontato un risultato delle elezioni europee che non consentirà a Giorgia Meloni di entrare comunque nella prossima maggioranza europea, così da avere eventualmente un peso negoziale ancora maggiore nella scelta del proprio candidato. 

In secondo luogo, non ci ricordiamo di idee e progetti macroniani che possano aver apportato un qualsivoglia beneficio all’Italia o comunque averne minimamente tenuto in considerazione i legittimi interessi. 

Terzo, ci sfuggono anche le ragioni della Germania per sostenere un simile progetto, ma forse è una nostra mancanza di comprensione. 

Quarto e ultimo, la spocchia di dare per scontato che per esprimere una candidatura del più alto livello l’Italia debba ricorrere all’italiano “meno italiano” o “meno politico” in assoluto. Ma perchè? Abbiamo fatto o faremo le stesse valutazioni per Francia e Germania? La stessa Ursula von der Leyen non ha “semplicemente” svolto più volte il ruolo di ministro nei governi Merkel? 

E’ ovvio che ci siano pesi diversi tra Germania, Francia e Italia nelle dinamiche europee, costruitisi nel corso di decenni. Ma è altrettanto innegabile che tali differenze derivino anche dalla endemica instabilità italiana. 

Per quale motivo, in un contesto di relativa stabilità e con un Governo con un orizzonte di medio-lungo periodo, si debba ancora una volta appellarsi al “migliore” fuori dalla politica sinceramente non ci è chiaro. 

Poi andrebbe anche chiesto a Draghi cosa ne pensi della sua “giacchetta” tirata da una parte e dall’altra, ma questa è un’altra storia.