Lavoro

Il lavoro che ci meritiamo per essere felici

01
Maggio 2024
Di Ilaria Donatio

Impazza un hashtag tra gli utenti di Instagram e TikTok: il #quietquitting che sarebbe il fenomeno – oggi molto diffuso tra i lavoratori – di “tirare i remi in barca” a lavoro. Dunque, di non ammazzarsi di fatica e ridurre tacitamente il proprio impegno, pur conservando posto e stipendio.

Questa diffusa insoddisfazione colorata di risentimento, ha anche numeri che la misurano con una certa precisione.

Il rapporto annuale sul lavoro della società di consulenza statunitense Gallup – State of the Global Workplace – stilato su un campione di oltre due milioni di persone in tutto il mondo (circa mille per ogni Paese), rivela che, nonostante la crescita occupazionale globale del 2023, lo stress e l’insoddisfazione dei lavoratori hanno raggiunto picchi storici (44%). 

Il fenomeno del “quiet quitting” è diffuso, con il 59% che mostra un silenzioso disimpegno. In Italia, bassi livelli di coinvolgimento (5%) e alti livelli di stress quotidiano (46%) richiederebbero una revisione dello stile manageriale. 

In particolare, nel nostro Paese, il 26% dei lavoratori over 40 e il 18% degli under 40 si sente “apertamente ostile” al proprio impiego. Una differenza che è speculare a un altro dato Gallup, quello che indaga la soddisfazione: solo l’8% degli under 40 e il 4% degli over 40 si sente “pienamente soddisfatto”.

Le cose, è vero, non sono molto più brillanti all’estero, ma lì va meglio se pensiamo che la media italiana (6%) è meno della metà di quella europea (13%) e quasi un quarto rispetto a quella mondiale (23%).

Quali sono le richieste dei dipendenti? Includono riconoscimento (41%), stipendi proporzionati alle qualifiche (28%) e attenzione al benessere psico-fisico (16%). 

Ma non c’è solo il quiet quitting a fare da padrone nella vasta costellazione di anglofonie un po’ bizzarre che si rincorrono su Instagram e TikTok: ci sono anche il presenteeism (limitarsi a essere presente fisicamente in ufficio), il resenteeism (a rappresentare la frustrazione di chi, insoddisfatto del proprio lavoro, lo conserva non credendo nella possibilità concreta di trovarne uno migliore) e persino il coffee badging (passare il tempo vicino alla macchinetta del caffè). 

E sebbene questi neologismi sul lavoro – che hanno come al solito creato hype sui social  – appaiano una moda superficiale (una delle tante destinate a passare in fretta), la realtà è che dietro alle parole c’è tutto un mondo che è cambiato: non solo perché, prima della digitalizzazione, il lavoratore era principalmente alla ricerca di stabilità nella propria vita professionale, ma soprattutto perché oggi il rapporto tra dipendente e azienda è diventato più dinamico, in ogni caso, di reciproca utilità. Abbassando di molto la soglia di tolleranza rispetto a certi stili manageriali ancora troppo dirigisti.

In più, ci sono le nuove tecnologie, l’organizzazione famigliare, la rivoluzione rappresentata dalla pandemia con il ricorso allo smart working: tutto ha influito a informare di sé quella personale ricerca della felicità che, nel tempo, ha visto smontare continuamente svariati ordini di priorità. E oggi, tempo libero, relazioni umane, qualità della leadership, diritti e libertà delle idee, certamente, alimentano un concetto di felicità pubblica che, a differenza della felicità individuale – privata e personale – ha a che fare con le pre-condizioni istituzionali e strutturali che consentono ai cittadini di sviluppare (o meno) la loro felicità. E di cui lo stesso reddito percepito e un’occupazione più o meno appagante sono tra gli indicatori privilegiati. 

Certo, collegato al lavoro, esiste e andrebbe indagato meglio il tema di politiche pubbliche, in generale, e di politiche enomomiche in particolare. Lo fa, per esempio, un pezzo pubblicato sul Financial Times di qualche mese fa, dal titolo: “Battle of the ages: how America’s gerontocracy is a challenge for democracy” (Come la gerontocrazia americana sia una sfida per la democrazia). 

La questione che solleva la giornalista del FT, Eva Xiao, riguarda i legislatori statunitensi che sono particolarmente vecchi: come incide, si chiede Xiao, una classe dirigente vecchia rispetto alla popolazione (“un deputato Usa su cinque ha più di 70 anni”) sulle politiche pubbliche? 

Da una parte, “per la democrazia in generale, è bene avere un turnover dei leader”, risponde Xiao, citando Daniel Stockemer, professore di studi politici dell’Università di Ottawa che ha studiato la rappresentanza dell’età in tutto il mondo. Ma dall’altra, e il discorso diventa più sostanziale, “similmente ad altri gruppi minoritari, la severa sottorappresentazione dei giovani, probabilmente, significa che i loro interessi non sono adeguatamente affrontati dai responsabili politici, il che contribuisce alla apatia (anche politica) degli under 40”. Che, insoddisfatti e sottorappresentati,  ricorrono a forme di protesta silenziose.

In Italia – dove l’effetto della gerontocrazia sulla scarsa diffusione delle competenze digitali si può osservare in tutti i settori economici, pubblici e privati – aziende, amministrazioni, tribunali, tutti scontano ritardi in tema di innovazione dovuti in gran parte alla scarsa propensione all’innovazione da parte di un management mediamente anziano e soprattutto incontestabile. 

Intanto, nel 2025, la spesa italiana per le pensioni raggiungerà il 16,2% del Pil, la percentuale più alta tra i paesi Ocse, secondo le tabelle del Report Pensions at a glance, pubblicato dall’Ocse. E ai lavoratori più (o meno) giovani non resta che il quiet quitting.