Esteri

Patto di stabilità, la riforma più vicina. Priorità e nodi da sciogliere

10
Marzo 2023
Di Giampiero Cinelli

Martedì è attesa l’approvazione da parte dell’Ecofin (l’organo che riunisce i ministri economici dell’Unione Europea) della riforma del Patto di Stabilità e Crescita. Il testo quindi si avvia progressivamente alla sua entrata in vigore, segnando la fine di una storia europea che va dal periodo pre-crisi a quello del whatever it takes, passando per la pandemia.

L’ossatura però resta. Verranno confermati i parametri del 3% di deficit sul Pil e del 60% di debito pubblico sul Pil. Tuttavia il percorso da attuare per i Paesi indebitati sarà più graduale. I piani di rientro saranno presentati dagli Stati membri, sul modello Pnrr e su un arco orientativamente di quattro anni, sette per i Paesi a medio rischio. Verranno valutati dalla Commissione e successivamente approvati dal Consiglio. All’interno dei piani, gradi di flessibilità potranno essere accordati se lo Stato membro indicherà degli investimenti utili alla crescita.

Il nuovo patto entra in vigore dall’anno prossimo, per dare la possibilità di recuperare meglio dal periodo Covid. L’elemento di sicura novità è che l’iniziativa passerà agli Stati, veri e propri titolari del loro programma e dei loro obiettivi finanziari, anche se non sfuggiranno al monitoraggio, con un “braccio preventivo” da parte dell’autorità qualora il percorso di aggiustamento non sembri efficace e un “braccio correttivo” nel caso in cui il programma di rientro non venga rispettato.

Gli aspetti positivi e quelli negativi

Secondo molti analisti, l’idea del rientro pluriennale è certamente positiva. Un passo avanti anche l’abbandono dei concetti di “deficit strutturale” e “pil potenziale“. In sostanza basare i calcoli su un livello di deficit ritenuto normale per il Paese in esame, quantificando anche il tasso di crescita potenziale del suo Pil, poneva troppi limiti. Perché, di conseguenza, andava a definire quanto quel Paese potesse permettersi di spendere nell’anno. Ora i piani saranno concordati considerando la traiettoria della spesa primaria netta, cioè la spesa media di un governo, senza contare gli interessi sul debito ed eventuali altri interventi urgenti fuori bilancio. Inoltre, non ci sarebbero più correzioni annuali immediate, ma obiettivi flessibili nel medio termine. Il senso del piano è far sì che dopo il quadriennio il debito si indirizzi in una parabola discendente per almeno dieci anni.

Allora qual è il problema? La valutazione della sostenibilità del debito è in seno alla Commissione, con dei rischi previsionali molto alti. Molto meno invece sarebbe lo spazio valutativo di organi nazionali indipendenti come ad esempio l’Ufficio Parlamentare di Bilancio o altri organi fiscali non governativi. Per altro, abbiamo visto che dopo la pandemia i debiti pubblici degli Stati europei sono tutti saliti molto. Pare quindi anacronistico pensare ancora di ridurli con procedure e obiettivi così standardizzati. In caso di controproposta del governo riguardo al piano, che può essere anche esteso temporalmente, l’ultima parola resta alla Commissione. Qualora lo Stato membro e il Consiglio non abbiano conciliato.

Sulla riforma si continuerà a lavorare e si auspica che le criticità vengano superate con una maggiore autonomia degli Stati, ma di certo non si può negare che un cambiamento ci sia rispetto al periodo dell’austerità.