Esteri

Guerra Israele–Hamas: si negozia una tregua, s’allarga la crepa tra Israele e Stati Uniti

28
Febbraio 2024
Di Giampiero Gramaglia

Un militare dell’aeronautica degli Stati Uniti s’è dato fuoco domenica scorsa davanti ai cancelli all’ambasciata di Israele a Washington, al numero 3500 di International Drive Northwest, dove ci sono molte rappresentanze diplomatiche. Aaron Bushnell, 25 anni, di San Antonio, Texas, «non voleva più essere complice di un genocidio», in riferimento alla guerra tra Israele e Hamas. Il giovane, che ha diffuso in diretta la scena del suo gesto sulla piattaforma Twitch, contestava l’atteggiamento filo-israeliano dell’Amministrazione Biden. Ricoverato in ospedale, è deceduto per la gravità delle ustioni riportate.

Per lo stesso motivo, gli arabo-americani del Michigan, lo Stato dell’Unione dove la comunità è percentualmente più numerosa, hanno boicottato Biden, martedì, nelle primarie democratiche, facendo una croce su ‘uncommitted’, invece che sul nome del presidente candidato. Segno d’una insofferenza diffusa e crescente, negli Stati Uniti, per le atrocità della guerra tra Israele e Hamas nella Striscia di Gaza. Anche fra Amministrazione statunitense e governo israeliano, s’allarga la crepa.

Mentre Bushnell compiva il suo gesto, il premier israeliano Benjamin Netanyahu metteva a punto, con il suo governo, i dettagli dell’operazione di terra a Rafah, la cui attuazione sarebbe solo «rinviata» da un’intesa con Hamas per una tregua. E delineava un piano per il futuro della Striscia, dopo il conflitto, subito bocciato da tutte le altre parti in causa.

La guerra è ormai vicina al 150° giorno: la prossima settimana saranno cinque mesi dal 7 ottobre, quando incursioni terroristiche in territorio israeliano di miliziani di Hamas e di altre sigle fecero 1200 vittime e condussero alla cattura di circa 300 ostaggi. Da allora, i morti palestinesi sono stati circa 30mila, nella stragrande maggioranza civili, donne e bambini a migliaia. Centinaia i militari israeliani caduti.

Il presidente americano Joe Biden crede, o almeno spera, che i negoziati, mediati da Qatar ed Egitto con il concorso degli Usa, si stiano avviando a un’intesa: un cessate-il-fuoco in cambio del rilascio di alcuni, se non tutti, gli ostaggi nelle mani di Hamas – dei 130 non ancora restituiti, si calcola che un centinaio siano in vita –. Biden, che ha emissari al tavolo delle trattative, tra Parigi e il Cairo, dice che l’accordo potrebbe esserci entro lunedì oppure entro l’inizio del Ramadan, il 10 marzo. Due settimane or sono, Netanyahu aveva già detto che il conflitto sarebbe proseguito fino all’inizio del Ramadan, il mese del digiuno musulmano.

Il quotidiano israeliano Haaretz, che cita fonti vicine ai negoziati, annuncia passi avanti verso un’intesa, un baratto tregua/ostaggi. Per le fonti israeliane, però, «qualsiasi ulteriore progresso è nelle mani di Hamas». Che, dicono fonti statunitensi, avrebbe rinunciato ad alcune sue pretese: chiedeva il ritiro dalla Striscia dell’esercito israeliano e la liberazione di 3.000 detenuti, quasi trenta per ogni ostaggio. L’ipotesi ora è un cessate-il-fuoco di sei settimane; la restituzione degli ostaggi, o di parte di essi; il rilascio dalle carceri israeliane di un certo numero di prigionieri palestinesi e l’ingresso a Gaza di aiuti umanitari in misura adeguata, in un contesto dove, nelle stime dell’Onu, mezzo milione di persone sono denutrite. Non si parla di fine delle ostilità né di ritiro.

Netanyahu bocciato da Biden e dagli arabi
Nel documento sulla gestione di Gaza dopo la conclusione del conflitto, presentato da Netanyahu, l’amministrazione dei servizi nella Striscia dovrebbe essere affidata a «funzionari locali», com’era fino al 2007, quando Hamas estromise l’Autorità nazionale palestinese e prese il controllo. La bozza del premier non cita l’Anp in modo esplicito, ma parla di persone «non legate a Paesi o entità che sostengono il terrorismo».

Altro punto: l’agenzia delle Nazioni Unite per i palestinesi, l’Unrwa, dovrà lasciare la Striscia, dopo che diversi suoi addetti, secondo quanto sostiene Israele, hanno partecipato alle stragi del 7 ottobre. Oltre al ritorno a casa di tutti gli ostaggi, il piano di Netanyahu prevede che le operazioni militari proseguano fino alla distruzione di Hamas e della Jihad Islamica e che gli israeliani mantengano libertà di azione nella Striscia, ai cui confini sono previsti una zona cuscinetto tra Gaza e Israele e una chiusura a sud di Rafah da realizzare in collaborazione con l’Egitto.

Gli Usa e le altre parti in causa nella Regione bocciano come «non praticabile» il piano del premier per il futuro assetto della Striscia. I militari israeliani hanno già presentato al loro governo un piano per evacuare la popolazione di Gaza dalle aree che potrebbero essere teatro di nuovi combattimenti, compresa Rafah, dove la prospettiva di un’offensiva è sempre attuale. Il che alimenta ansia e paure: la città è sovra-popolata, con un milione di rifugiati da Gaza e da Khan Younis che non hanno dove scappare ulteriormente.

Il segretario di Stato Usa Antony Blinken è cauto: «Per quanto riguarda i piani post-guerra, leggo delle anticipazioni, ma non ho visionato il piano israeliano. Ci sono punti base che vogliamo siano rispettati: non ci dev’essere nessuna rioccupazione israeliana della Striscia». Critica pure l’Autorità nazionale palestinese: per il portavoce Nabil Rudeineh, «Gaza farà parte dello Stato palestinese indipendente che avrà Gerusalemme come capitale. Qualsiasi piano contrario è destinato a fallire». L’Anp nei Territori vive una fase di transizione: il premier Mohammed Shtayyeh e il suo governo sono dimissionari; e Washington preme per riforme che riducano la corruzione in CisGiordania e migliorino le condizioni di vita e la gestione dei servizi.

A segnare la distanza tra Israele e Stati Uniti, c’è stato anche l’annuncio, fatto da Blinken, che Washington considererà d’ora in poi illegali ulteriori nuovi insediamenti di coloni in Cisgiordania: viene così rovesciata una politica introdotta durante la presidenza Trump e si ritorna alla posizione statunitense tradizionale. L’Onu è sempre stata ostile a nuovi insediamenti israeliani nei Territori. L’Amministrazione Biden sta studiando come bloccare le raccolte di fondi a sostegno dei coloni, che continuano a trovare donatori nell’Unione.

Sul terreno, le cronache di guerra sono costellate di bombardamenti e combattimenti nella Striscia, di incidenti in CisGiordania, di scambi di tiri e di droni al confine tra Libano e Israele; di sporadici attacchi terroristici in Israele.

Tutta la Regione resta in fermento, incluso il Mar Rosso, dove s’intrecciano attacchi degli Huthi contro navi commerciali e ritorsioni occidentali. L’Ue lancia l’operazione navale EuNavFor Aspides, comando strategico greco, comando operativo italiano, a garanzia della libertà di navigazione e tutela degli scambi europei.

Israele sarebbe sul punto di eliminare o catturare un leader di Hamas che starebbe nascondendosi nei tunnel sotto Khan Younis, ma la sua uccisione potrebbe compromettere la vita di ostaggi. Yehiya Sinwar è considerato uno degli artefici delle operazioni terroristiche del 7 ottobre e utilizzerebbe gli ostaggi come scudi umani.

Guerra Israele–Hamas: le contraddizioni degli Usa all’Onu
Le contraddizioni degli Usa verso Israele – critiche, ma nel contempo sostegno incondizionato – erano state evidenziate, la settimana scorsa, dal veto di Washington alla mozione dell’Onu per un cessate-il-fuoco nella Striscia di Gaza. L’Amministrazione Biden pone il veto perché la mozione non esprime il diritto di Israele a difendersi e perché non chiede l’immediato rilascio degli ostaggi. Nel Consiglio di Sicurezza, 13 Paesi votano a favore, la Gran Bretagna si astiene, gli Stati Uniti votano contro.

La rappresentante degli Usa all’Onu Linda Thomas-Greenfield prova a contrapporre senza successo al testo algerino un proprio testo, con la richiesta di levare tutte le restrizioni agli aiuti umanitari. Non è escluso che la risoluzione ‘vetata’ venga ora sottoposta all’Assemblea generale, dove siedono tutti i 193 membri delle Nazioni Unite e dove sarebbe sicuramente votata da una larga maggioranza. Ma le decisioni del Consiglio di Sicurezza sono vincolanti, quelle dell’Assemblea no.

Sollecitata di nuovo dal SudAfrica, la Corte di Giustizia internazionale dell’Aia respinge la richiesta di misure urgenti a protezione di Rafah, ma ribadisce che Israele deve rispettare gli inviti a tutela delle vite dei civili e dei diritti umani già emanati. E la Corte, sollecitata dall’Assemblea generale, avvia una serie di audizioni sulla legalità dell’occupazione, che dura da 57 anni, da parte di Israele, dei territori che dovrebbero costituire lo Stato palestinese: il parere della Corte, una volta emesso, non avrà comunque carattere vincolante.

Il premier Netanyahu ribadisce il no alla soluzione dei due Stati, perché – dice – «non è il momento di fare dei regali ai palestinesi» e bisogna «continuare a combattere fino alla vittoria assoluta». L’Egitto, che teme un esodo di massa dalla Striscia, allestisce lungo il confine una zona cuscinetto larga oltre tre chilometri.