Esteri

Guerra Israele – Hamas: movimenti diplomatici, ma conta morti continua

10
Gennaio 2024
Di Giampiero Gramaglia

Qualcosa si muove negli intrecci diplomatici in Medio Oriente. Ma la pace resta lontana. Se Israele vuole che la spirale di violenza finisca e che si apra una stagione di tranquillità e di sicurezza, deve cominciare a fare piani per il dopo guerra con i leader palestinesi moderati e accettare la prospettiva della nascita di uno Stato palestinese.

Il segretario di Stato Usa Antony Blinken, all’ennesima missione in Medio Oriente, lo dice chiaro e tondo al premier israeliano Benjamin Netanyahu, in una conversazione definita “tempestosa”.

Blinken riferisce a Netanyahu di avere riscontrato “sostegno” al progetto di uno Stato palestinese nelle capitali visitate, gli chiede di autorizzare ispezioni dell’Onu nella Striscia e di consentire maggiori flussi di aiuti umanitari e, soprattutto, di fare di più per tutelare i civili.

Gli Usa sollecitano Israele a non boicottare l’idea di una forma di auto-governo palestinese, condizione perché gli altri Stati della Regione e pure l’Ue finanzino la ricostruzione.

Nei cento giorni di guerra tra Israele e Hamas, un abitante della Striscia di Gaza su cento è stato ucciso. L’offensiva di Israele è stata innescata dagli attacchi terroristici di Hamas e di altre sigle palestinesi che provocarono 1200 vittime israeliane il 7 ottobre, con la cattura di circa 250 ostaggi, una metà dei quali ancora trattenuti – 132 si calcola per l’esattezza, ma alcuni potrebbero essere deceduti nei bombardamenti e nei combattimenti -.

I morti a Gaza superano i 23 mila, secondo il Ministero della Sanità palestinese. I giornalisti uccisi sono circa 110. Centinaia gli operatori umanitari, dell’Onu e di altre sigle, fra le vittime. Su Israele sono incessanti le pressioni delle Nazioni Unite e degli organismi internazionali perché eviti stragi di civili e uccisioni per errore, come a più riprese avvenuto – fra le vittime, ostaggi e bambini -.

Ucraina: tutto fermo, il fronte e la diplomazia
Ai movimenti militari e diplomatici in Medio Oriente, si contrappone la stasi letale dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia: presto due anni di guerra, centinaia di migliaia di caduti stimati nei due campi, una linea del fronte sostanzialmente statica da almeno 15 mesi e nessuna iniziativa diplomatica seria per innescare un percorso di pace. Ma missili e droni fanno vittime ogni notte.

Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e i suoi ministri continuano a sollecitare aiuti militari dagli Stati Uniti e dai Paesi Nato: in una riunione a Bruxelles, hanno insistentemente chiesto sistemi di difesa anti-aerea per contrastare gli attacchi russi, che presto potrebbero contrare su missili forniti dall’Iran e dalla Corea del Nord.

Ma gli aiuti più cospicui restano bloccati da diatribe interne agli Usa e all’Ue. A Washington, l’opposizione repubblicana subordina il sostegno all’Ucraina a misure anti-migranti dal Messico, sostenendo che la sicurezza dell’Unione si gioca più lungo il confine che in Europa. A Bruxelles, l’Ungheria congela un pacchetto di aiuti pluriennale da 50 miliardi di euro: una decisione potrà forse essere presa nella riunione straordinaria del Consiglio europeo del 1° febbraio.

Come il ministro della Difesa italiano Guido Crosetto ha notato, parlando al Parlamento italiano, si colgono in Russia segnali di disponibilità al negoziato e in Ucraina fermenti di minore coesione. Ma, contro le speranze di pace, o almeno di tregua, giocano, nel Medio Oriente e sul fronte ucraino, i calcoli di quanti sperano di trarre vantaggio da un cambio della guardia alla Casa Bianca: il ritorno di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti farebbe finire la guerra in Ucraina “da un giorno all’altro” – promessa del magnate -, accettando di fatto lo ‘statu quo’ e cioè l’annessione alla Russia dei territori ucraini occupati; e offrirebbe all’estremismo di destra israeliano una spalla più solida dell’Amministrazione Biden.

Israele – Hamas: una nuova fase, con indicazioni contraddittorie
Nel suo viaggio, che dura un’intera settimana, Blinken va prima in Grecia e in Turchia, dove parla dell’adesione della Svezia alla Nato, che Ankara tiene in sospeso, in attesa degli F-16 Usa, e poi nella penisola arabica, in Giordania e in Egitto, in Israele e nei Territori. Obiettivo: ridurre il rischio che il conflitto deflagri a livello regionale e discutere la nuova fase dell’offensiva israeliana e i piani – ancora nebulosi – per il dopo guerra.

Il presidente israeliano Isaac Herzog esclude che Israele voglia espellere i palestinesi dalla Striscia. Ma le dichiarazioni del presidente fanno seguito ai progetti espressi da alcuni ministri per svuotare parti della Striscia. Secondo l’Onu, il 90% degli oltre due milioni di palestinesi che abitano a Gaza hanno già dovuto abbandonare le loro abitazioni e vivono in condizioni di fortuna, con scarsi viveri e un’assistenza sanitaria precaria.

Negli ultimi giorni, ci sono stati movimenti contrastanti: da una parte, palestinesi che cercano di tornare alle loro case distrutte; dall’altra, manovre israeliane perché i palestinesi evacuino la Striscia e s’installino in Egitto o in Giordania o altrove – mosse che destano diffidenza nei Paesi arabi vicini a Israele, ma anche nella comunità internazionale -.

Israele sostiene di aver iniziato una nuova fase delle operazioni militari nella Striscia: meno intensa e più cauta, accogliendo, dopo oltre tre mesi, gli appelli di Stati Uniti e comunità internazionale. D’ora in poi, dovrebbero esserci meno truppe sul terreno e meno attacchi aerei indiscriminati, ma più operazioni mirate. Il che, però, comporta altri rischi, quando esse vengono condotte al di fuori della Striscia o dei Territori.

Il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant non lascia, tuttavia, spazio, a equivoci: la guerra va avanti e Israele non si ritirerà da Gaza se non saranno liberati tutti gli ostaggi. La nuova fase s’articola in minori scontri nel Nord della Striscia, ormai praticamente svuotato della popolazione, ma nell’intensificazione della caccia ai leader di Hamas nel Centro e nel Sud, dove le azioni di terra e di cielo potrebbero addirittura intensificarsi: in una notte, a Khan Younis, sono stati colpiti oltre cento obiettivi.

Gallant ha anche le sue idee su come la Striscia possa essere governata a conflitto concluso: Israele dovrebbe mantenere il controllo della sicurezza, mentre un’entità palestinese indefinita, ma sotto tutela israeliana, gestisce la vita di tutti i giorni, con Stati Uniti ed Unione europea a farsi carico della ricostruzione. Difficile dire – osserva la Ap – in che misura i vaghi propositi del ministro soddisfino gli auspici statunitensi. E, del resto, vi sono tensioni e divergenze nel governo israeliano: Gallant – si dice – non è in sintonia con Netanyahu; e c’è chi preme per elezioni che potrebbero coincidere con il tramonto del premier.

Israele – Hamas: i riflessi del conflitto negli Stati Uniti e i rischi di allargamento
Negli Stati Uniti, l’atteggiamento dell’Amministrazione Biden di pieno sostegno a Israele, al di là delle pressioni umanitarie che vengono esercitate con esito incerto, s’è ormai rivelato un fattore di debolezza elettorale per il presidente democratico, che lunedì è stato accolto da cori pro-palestinesi a Charleston, nella South Carolina, dov’era andato per riconquistare il voto dei neri, che gli sta scivolando di mano. Contemporaneamente, centinaia di manifestanti pro-palestinesi erano arrestati a New York, per avere bloccato il traffico sui ponti della Grande Mela, chiedendo il cessate-il-fuoco a Gaza.

Fra gli obiettivi della missione di Blinken, il più realistico e il più impellente è evitare il rischio d’allargamento del conflitto, acuitosi negli ultimi giorni, dopo che Israele, che aveva già fatto fuori un dirigente di Hamas con un attacco a sud di Beriut, ha di nuovo colpito e ucciso in Libano: stavolta, l’obiettivo era un comandante di Hezbollah, il gruppo filo-iraniano che opera sul confine tra Libano e Israele, Wissam Hassan Al-Tawil, responsabile del lancio di razzi contro Israele.

Le forze israeliane hanno intercettato Al-Tawil a Khibet Sel, un villaggio libanese, a circa 15 km dal confine con Israele. L’episodio s’è verificato quando non s’era ancora placata la tensione per l’attentato in Iran che, il 3 gennaio, anniversario dell’uccisione a Baghdad del generale Suleimani, ha fatto un centinaio di vittime e scosso il regime di Teheran.

L’azione è stata rivendicata dall’Isis e non è quindi ascrivibile a Usa o Israele. Ma ogni sussulto nella Regione, dove si registrano scaramucce anche in Iraq e in Siria – le truppe Usa di stanza reagiscono a provocazioni -, oltre che nel Golfo Persico, dove i ribelli Huthi mettono a repentaglio la libertà di navigazione, fa crescere il timore di un conflitto su scala regionale. Va detto che finora Beirut e Teheran hanno mostrato una certa freddezza, lasciando protagoniste le milizie sul terreno.

Per Hamas, gli attacchi terroristici del 7 ottobre sono stati “un puro atto di resistenza palestinese”: nessun gruppo non palestinese vi ha preso parte. Ma quando Israele risponde avviando nella Striscia la più devastante campagna militare del XXI Secolo, il cosiddetto Asse della Resistenza, sostenuto dall’Iran che foraggia milizie nella Regione, dal Libano alla Siria all’Iraq, entra in fermento e partecipa, in qualche misura, al conflitto.

Di tutti i gruppi vicini all’Iran, e solidali con la causa palestinese, Hezbollah è quello più sollecitato. Se tollera gli attacchi di Israele, rischia di apparire un alleato debole e inaffidabile. Ma se dovesse lanciare in uno scontro aperto, Israele ha già minacciato di causare massicce distruzioni in Libano, Paese già alle prese con una grave crisi economica.

L’ultima cosa che gli Stati Uniti e la stragrande maggioranza dei cittadini americani vogliono, dopo decenni di costose e sanguinose e sostanzialmente inutili nei risultati campagne in Afghanistan e in Iraq, è un’altra guerra in Medio Oriente. Ma negli ultimi giorni le forze statunitensi hanno ucciso un comandante di una milizia sostenuta dall’Iran in Iraq e una decina di ribelli Huthi, creando anch’esse i presupposti per un’escalation di ritorsioni.