Esteri

Conferenza sulle migrazioni, Libano, Siria e diritti umani

06
Agosto 2023
Di Elisa Gestri

Con una collocazione inusuale, domenica 23 luglio alla Farnesina si è tenuta la prima Conferenza internazionale su sviluppo e migrazioni, voluta dal Premier italiano Giorgia Meloni. Alla presenza di Ursula von der Leyen e di Charles Michel (ma nel punto stampa finale Meloni  ha annunciato che le conclusioni della Conferenza saranno inviate anche al Segretario Generale ONU) hanno sfilato le delegazioni dei Paesi della sponda sud del Mediterraneo, degli Stati Ue di primo approdo e osservatori interessati degli Stati del Golfo, del Corno d’Africa e del Sahel.

L’intervento del primo ministro libanese facente funzione Najib Miqati (in Libano manca attualmente un governo legittimamente eletto) ha attirato l’attenzione sul problema dei rifugiati siriani nel piccolo Paese, figli di una guerra tuttora in corso. Durante il suo intervento Miqati ha sottolineato l’ospitalità offerta dal Libano a più di 2 milioni di rifugiati siriani in questi dodici anni di conflitto, riprovando duramente la risoluzione del Parlamento europeo del 12 luglio scorso a sostegno del soggiorno dei rifugiati siriani in Libano, a motivo della mancanza attuale di condizioni per il loro rimpatrio in Siria. La risoluzione, secondo Miqati, è invece di riconoscere l’impegno del Libano nell’affrontare la crisi dei rifugiati, e sarebbe rea di aver biasimato o meglio punito il Paese;  Miqati ha parlato di violazione della sovranità libanese e ha chiesto, poiché il conflitto in Siria è terminato, che i fondi internazionali vengano diretti per agevolare il rientro volontario dei siriani in madrepatria.

Ma se è vero che il piccolo Paese di poco meno di sette milioni di abitanti ha dovuto sopportare un carico di rifugiati superiore alle proprie possibilità, è altrettanto vero che il governo ha iniziato una campagna unilaterale di espulsioni già dal 2019, quando il crack finanziario del Paese, la cui soluzione è ad oggi di là da venire, si andava annunciando. Migliaia di siriani in Libano vivono da anni nel terrore di essere rispediti in Siria. Per paura di essere arrestate ed espulse, le famiglie di rifugiati  non si allontanano dai campi informali loro destinati dalle agenzie Onu, oramai in abbandono per mancanza di fondi a causa della crisi globale e delle ricadute del  conflitto in Ucraina.

Il governo libanese mal tollera da sempre questi insediamenti, e rifiuta di concedere ai forzati siriani dell’immigrazione e ai loro figli nati nel Paese i più elementari diritti, per non parlare della cittadinanza, sogno impossibile di ogni rifugiato siriano in Libano.

Non è un mistero che la popolazione libanese di ogni confessione religiosa non ami i rifugiati siriani, oggetto sin dal loro arrivo di ben documentati episodi di violenza, pestaggi, stupri, abusi, sfruttamento, violazioni dei diritti umani di ogni tipo. Con il silenzio delle istituzioni libanesi, com’è noto corrotte in sommo grado, la criminalità organizzata ha fatto scempio di generazioni di minori siriani senza documenti, sfruttandoli nei traffici più svariati ed abietti, in particolare nell’accattonaggio, nel commercio illegale dei rifiuti, nella prostituzione minorile e nell’espianto di organi.

Basta percorrere un breve tratto a piedi in un quartiere qualunque della capitale Beirut per imbattersi in centinaia di minori siriani soli, affamati, sporchi, scalzi, ammalati, intenti a mendicare, a rovistare nella spazzatura, ad offrirsi per pochi dollari, ad esclusivo vantaggio di sfruttatori ben organizzati e senza scrupoli.

E’ altrettanto documentato che la maggior parte dei rifugiati siriani invece che in Libano preferirebbe vivere in patria se le loro case ed il loro tessuto sociale di appartenenza non fossero totalmente distrutti, se in molti casi non li aspettasse l’arresto immediato e se ricevessero ampie garanzie di non essere perseguitati al rientro dal loro governo.

Quest’ultimo punto sembra essere stato  una delle clausole per la riammissione della Siria nella Lega Araba, avvenuta nel maggio scorso dopo dodici anni di estromissione.  In cambio del riavvicinamento dei Paesi Arabi, il presidente siriano Bashar al Assad dovrà impegnarsi a sgominare il contrabbando degli stupefacenti prodotti in Siria che hanno inondato i paesi del Golfo, ad indire in un futuro indefinito libere elezioni, ed appunto ad accogliere i rifugiati che vorranno rientrare in Siria senza imporre ritorsioni.

Dal canto suo nel giugno scorso l’Assemblea generale dell’ONU ha approvato la creazione di un organismo indipendente che indaghi sulla sorte di almeno centomila persone scomparse durante gli anni del conflitto. L’approvazione è arrivata all’Onu nonostante il voto contrario di Damasco e l’astensione di alcuni Paesi, fra cui il Libano.

Dalla lettura di questi dati appare quantomeno ambigua e contraddittoria la posizione sostenuta dalle autorità libanesi in sede internazionale. Il governo di Beirut è da anni il principale recettore dei finanziamenti internazionali destinati ai rifugiati siriani; all’indomani dalla tragica esplosione al porto di Beirut dell’agosto 2020, che ha causato egualmente vittime tra libanesi e siriani, il sostegno internazionale al piccolo Paese ha raggiunto cifre da capogiro, di cui è difficile se non impossibile rintracciare gli effettivi benefici: a tre anni dall’incidente il Paese è ormai precipitato in un buco nero istituzionale, economico, finanziario, sociale spaventoso.

D’altra parte,le istituzioni libanesi stesse, o quel che ne  resta, sembrano concentrate a dirigere il malcontento popolare sui siriani in fuga dalla guerra, per mascherare le proprie inadempienze e l’incapacità della classe politica di governare il Paese. Basta leggere il ben noto ranking annuale della rivista finanziaria Forbes per scoprire senza troppa sorpresa che l’intero debito pubblico del Libano potrebbe essere facilmente sanato con una piccola parte del patrimonio personale di uno qualsiasi dei principali attori politici libanesi. Il governo facente funzione, però, sembra preferire il vecchio gioco del capro espiatorio che, come la  storia insegna, rischia di diventare molto pericoloso per i partecipanti.