Economia
«L’innovazione farmaceutica crea valore sociale. Ma l’Italia deve accelerare»: parla Fabrizio Celia
Di Alessandro Caruso
(Articolo pubblicato su L’Economista, inserto de Il Riformista)
Innovazione, accesso alle cure, attrattività per gli investimenti e sostenibilità: sono le sfide che oggi si giocano sul campo della farmaceutica avanzata, soprattutto in aree complesse come le malattie rare e autoimmuni. Fabrizio Celia, general manager di argenx Italia, azienda biotech leader nell’innovazione farmaceutica e prima per capitalizzazione nel settore, fa il punto su cosa serve per trasformare la terapia innovativa in valore reale per pazienti, sistema sanitario ed economia.
Come si può misurare l’impatto dei farmaci innovativi sui pazienti? C’è anche un aspetto sociale oltre che economico?
«Misurare l’impatto dei farmaci innovativi sui pazienti è complesso perché non si tratta soltanto di stabilire quanto funzionino in termini di efficacia e sicurezza, ma di valutare quanto migliorino realmente la vita delle persone, con quali costi e in che misura i benefici siano duraturi nel tempo. L’approccio ideale è quindi multidimensionale: occorre andare oltre la considerazione degli esiti clinici – in primis efficacia e sicurezza – e integrare, ad esempio, la valutazione da parte dei pazienti (quando e come migliora il farmaco la loro qualità di vita e quella dei caregiver) e la misurazione dell’impatto socioeconomico sul sistema nella sua interezza. In questo senso, come argenx abbiamo supportato una survey digitale che ha coinvolto diversi Paesi e quasi 600 pazienti, “my realWorld-MG”, proprio per approfondire e misurare l’impatto sociale della miastenia gravis, una importante patologia neurologica di origine autoimmune che solo in Italia colpisce 17.000 persone. Ciò che è emerso è che la miastenia gravis non colpisce solo i muscoli ma anche l’equilibrio e l’economia delle famiglie: il 41% dei pazienti ha dichiarato di aver preso un congedo per malattia nell’ultimo mese e, lato caregiver – che nella quasi totalità dei casi sono familiari – il 16% ha dovuto ridurre l’orario di lavoro (14,4 ore in meno a settimana). Il 16% ha dovuto abbandonare del tutto il lavoro. Questo significa che la malattia impatta, nel migliore dei casi, almeno due vite: quella del paziente e quella di chi lo assiste. Migliorare i sintomi con trattamenti efficaci può ridurre le giornate di malattia e le rinunce lavorative, alleggerendo il carico socio-economico. Per questo, investire in farmaci innovativi significa restituire tempo produttivo ai pazienti e ai caregiver».
Come funziona l’accesso a questi farmaci in Italia? Si potrebbe fare meglio? Ci sono best practices da tenere a modello?
«In Italia l’accesso ai farmaci innovativi e orfani passa da una valutazione dell’AIFA che ne determina innovatività, prezzo e rimborsabilità. Fatti questi passaggi, si apre l’iter dell’accesso regionale, con l’inserimento del farmaco nei prontuari regionali ospedalieri ed infine con le procedure di gara. Il nostro apparato regolatorio è solido e molto ben disposto alle terapie innovative: oltre il 90% dei farmaci orfani approvati dall’EMA arriva effettivamente ai pazienti italiani. La sfida riguarda la componente temporale, soprattutto per quelle malattie che provocano un rapido deterioramento della qualità di vita. Su questo fronte è necessario allineare la velocità alla quale viaggia l’innovazione farmacologica e quella dei sistemi salute che la devono accogliere.
Abbiamo ancora un gap da colmare: snellire i passaggi burocratici e rendere più rapido l’iter negoziale significherebbe portare cure innovative ai pazienti in tempi più vicini a quelli degli altri grandi Paesi europei. Germania e Francia, ad esempio, hanno sistemi che garantiscono un accesso estremamente veloce: in Germania il farmaco innovativo è rimborsato subito dopo l’approvazione EMA. In Francia esiste un ampio sistema di accès précoce che permette di trattare i pazienti già prima della rimborsabilità definitiva, lasciando la negoziazione del prezzo a una fase successiva.
Questi modelli dimostrano che è possibile conciliare rapidità di accesso e sostenibilità economica del sistema».
La ricerca in questo settore ha un ruolo fondamentale, ma ha un costo. Come funziona l’attrazione di investimenti nel vostro comparto?
«La ricerca, soprattutto nelle malattie rare e orfane, è fondamentale perché parliamo di aree dove spesso non esistono alternative terapeutiche. Ma quello delle malattie rare è anche un settore ad altissimo rischio e intensità di capitale investito: sviluppare una terapia innovativa richiede anni, investimenti miliardari, un alto tasso di fallimento e spesso riguarda numeri molto piccoli di pazienti. Gli investimenti, così come i cervelli, non sono mai in fuga ma in movimento: nel nostro settore, per attrarre investimenti, servono tre cose: primo, un quadro regolatorio stabile e chiaro, che riduca l’incertezza per le aziende. Secondo, incentivi specifici, come le agevolazioni previste per i farmaci orfani a livello europeo e nazionale. Terzo, un ecosistema attrattivo che incentivi le collaborazioni tra pubblico e privato».
Tra le biotech la vostra è l’azienda con la maggiore capitalizzazione. Quanto avete raggiunto? E come ci siete riusciti?
«Argenx rappresenta oggi la biotech europea a più alta capitalizzazione: in quasi un decennio siamo passati da qualche centinaio di milioni a decine di miliardi di capitalizzazione, con una crescita non lineare ma esplosiva. Questo salto testimonia la fiducia degli investitori nelle scelte strategiche e nella pipeline dell’azienda. Al di là della componente finanziaria, che rimane estremamente importante per poter reinvestire gran parte dei ricavi – più del 50% nel 2024 – in ricerca e sviluppo, la nostra missione rimane sempre quella di continuare a fornire soluzioni innovative a medici e pazienti e di fare la nostra parte a fianco del nostro Servizio Sanitario Nazionale».





