Economia

L’Euro ventuno anni dopo. Ci ha fatto bene o male?

13
Gennaio 2023
Di Giampiero Cinelli

La Croazia è appena entrata nella moneta unica. All’euforia ora segue il disorientamento dato dall’aumento del prezzo delle merci. Una dinamica che si è osservata anche nel nostro Paese e che è in parte anche indotta da dinamiche psicologiche. Tuttavia, sebbene per molti sia controintuitivo, non sono questi i fattori cardine con cui valutare la convenienza di un’adesione a una unione monetaria. Noi, dopo ventuno anni, pur non avendo dimenticato lo scarso controllo sui prezzi nella conversione, guardiamo a quel passaggio con sguardo più ampio. Chiedendoci se l’euro ci abbia fatto bene o male, la risposta non arriva subito. E non è univoca. Allora proviamo a fare un bilancio.

Per formulare un giudizio, che ripetiamo non può essere condiviso da tutti, dobbiamo fissare i criteri di indagine. Analizzeremo quindi se i principali obiettivi che si volevano raggiungere con l’euro siano stati centrati, se abbiano avuto un impatto decisivo, e considereremo tutto ciò in relazione alle diverse classi sociali, con le relative esigenze. Vero infatti che generalmente l’euro piaccia di più ai ceti medio-alti, meno ai ceti medio-bassi. Questo perché, categorie come ad esempio quelle degli imprenditori e degli operatori finanziari, giovano di una moneta tendenzialmente stabile, che abbassa i costi delle importazioni di materiali, che rende i mercati più aperti e incentiva le transazioni. Mentre i piccoli commercianti, gli autonomi e i dipendenti, non riescono a sfruttare le possibilità appena dette e si ritrovano con una moneta rigida, non adatta a scaricare tramite la leva del cambio gli shock esterni e i surriscaldamenti interni, restando ancorata alle politiche prudenti della Bce, che di fatto induce i governi a programmi di bilancio e di welfare restrittivi. Andiamo adesso a un’analisi per punti.

L’euro e le sue promesse

Se la moneta unica ha luci e ombre, come mai abbiamo deciso di adottarla? Principalmente in virtù di tre auspici: un minor tasso d’interesse sui titoli, una minore inflazione, un florido scambio con l’estero.

Per quanto riguarda il tasso d’interesse sui Btp decennali, il risultato è chiaramente positivo. Specialmente in Italia. Perché, anche se i tassi d’interesse sono scesi un po’ dappertutto in Europa negli ultimi trent’anni, il nostro Paese ha registrato una caduta notevole, anche maggiore di quella delle nazioni assimilabili all’Italia che non hanno adottato l’euro. I più grandi ricorderanno i rendimenti a due cifre degli anni ’90. Il picco ci fu nel 1992, con il Btp al tasso del 14,42%. Oggi siamo in territori a singola cifra e siamo andati anche sotto l’1% prima della pandemia.

L’inflazione anche è scesa. Ma rispetto al tasso d’interesse questo vantaggio, dal 2002 ad oggi, appare meno marcato, sempre se ci confrontiamo con l’estero. Vale qui lo stesso ragionamento adottato sul costo del denaro. Ovvero il livello d’inflazione era in una tendenza a ribasso nell’area di riferimento dell’Italia dalla fine degli anni ’90. Sarebbe comunque calato, tuttavia gli effetti della divisa europea non sono da denigrare. Nel 1992, anno di uscita dell’Italia dal Sistema Monetario Europeo (era un regime in cui c’erano ancora le monete nazionali ma con cambi agganciati tra di loro. In vigore dal 1979), l’indice dei prezzi era intorno al 5%. Nel 2002 si attestò intorno al 2,5%. Tutti avrete presente l’inflazione assai bassa, più precisamente la deflazione, che abbiamo vissuto negli ultimi anni, eccetto quest’ultimo periodo in cui influisce l’impennata dell’energia. Ma se anche l’euro è in linea di massima responsabile della stabilità dei prezzi di questi anni, non dobbiamo pensare che ciò sia sempre un bene. Se l’inflazione è troppo bassa i produttori non hanno sufficienti profitti per investire e assumere personale, le retribuzioni tendono a scendere. Inoltre, come abbiamo visto, una moderata inflazione determina la riduzione del debito pubblico.

Commercio estero

Non v’è dubbio che il commercio estero abbia avuto un rilevante allargamento con l’introduzione della moneta unica. Lo certifica l’Ocse. Da questo punto di vista possiamo dire “missione compiuta”. Comunque, anche qui è utile discernere. Se il volume delle esportazioni, specie all’interno dell’Europa, è aumentato, d’altra parte è cresciuto anche il valore delle importazioni. Dunque ciò che conta è il saldo. La differenza tra export e import. Nei vent’anni, complessivamente la bilancia commerciale è positiva. Col segno + dal 2011 al 2021. Nonostante il Covid. I dati definitivi del 2022 dovrebbero però confermare un disavanzo. Va tenuto a mente che dal 2004 al 2011 la bilancia commerciale ha registrato un passivo. Ciò a causa della grande concorrenza, a parità di moneta, esercitata da nazioni forti quali Francia e Germania in primis. Dopo Monti abbiamo recuperato. E i detrattori dell’euro imputano questo successo però a una dinamica spiacevole, ossia la precarizzazione e l’appiattimento degli stipendi.

Un altro indicatore più esaustivo che ci dà l’idea di come l’Italia sia messa nei rapporti economici col resto del mondo, è la cosiddetta Bilancia dei Pagamenti, che include il commercio di beni e servizi ma calcola anche i flussi finanziari e dei redditi all’interno e all’esterno, delineando, potremmo dire, il conto corrente nazionale. In sostanza la posizione dell’Italia verso l’estero. Se è in attivo, vuol dire che il Paese è in credito con l’estero. Se è in passivo, il Paese è in debito con l’estero. Ebbene, dall’introduzione dell’euro fino al 2011, in realtà la bilancia dei pagamenti è stata negativa. Mentre, sempre dopo il governo Monti, siamo tornati in attivo, riassorbendo i debiti. Sarà sempre grazie – o per colpa – dell’austerità?

Il tasto dolente

Non è una novità. I dati li possiamo vedere ovunque. Quelli relativi al Pil e alla produttività. Che per l’Italia sono da tempo un vulnus. Giusto però evidenziare che il declino del Pil e della produttività sembrino coincidere con l’arrivo dell’euro. Più precisamente con il fissaggio del cambio nel ’96 e nel ’99. L’aggancio del ’99 sarà poi quello ufficiale dell’euro (1 euro/1936,27 lire). C’è una correlazione tra moneta unica e problemi di produttività? Gli studiosi non si sbilanciano, quelli molto favorevoli all’euro la reputano un’insensatezza, ma gli economisti più critici ritengono che questa questione debba essere affrontata. Se c’è un fondamento, sarebbe ascrivibile non tanto allo strumento in sé, ma ai meccanismi e alla gestione entro cui è inserito (Trattati Ue, Commissione europea, Bce), ma di certo il fatto che con l’euro l’Italia sia meno produttiva e cresca scarsamente da anni, non dovrebbe passare inosservato. Senza parlare dell’emergenza salari. Gli unici a non essere saliti in Europa negli ultimi vent’anni e ai minimi dal 1991 al 2021. L’elemento è ovviamente correlato a quello della produttività e del Pil.

Conclusioni

Avevamo detto all’inizio che nell’articolo non avremmo stabilito se l’euro ci abbia fatto bene o male. Ci interessava invece fornire un quadro abbastanza completo, fatto sia di punti che di un senso generale. Anche perché, a voler essere sociologicamente rigorosi, la percezione di un fenomeno dipende dalla prospettiva con cui lo si guarda, da ciò che ci si aspetta di trovare, dal profilo socio-economico dell’osservatore. Abbiamo posto alcuni spunti e dati. Da essi, crediamo non si possa evincere né che l’euro sia stato una fortuna, né che sia stato una iattura.