Economia

Gender pay gap: la parità non c’è nemmeno per gli stipendi

14
Febbraio 2018
Di Redazione

Sono purtroppo all’ordine del giorno i tristissimi fatti di cronaca legati ad abusi sulle donne: dai casi di molestie ai femminicidi, sembra che nell’ultimo periodo la parità tra generi sia più difficile da raggiungere rispetto a qualche tempo fa.

Eppure di strada se ne è fatta e se ne continua a fare: l’ultimo Governo può essere ricordato come uno tra i più attenti alla figura della donna nella società, sarà forse anche per i dati sempre più preoccupanti che arrivano e che riguardano il nostro Paese: secondo l’ultimo rapporto Ocse, entro il 2050, l’Italia sarà il terzo paese più vecchio al mondo. E questo porta con sé una serie di riflessioni che è necessario fare adesso e di politiche (di riorganizzazione dei carichi di lavoro, di natalità, di welfare) che non è più possibile rimandare.

Legato a tale dato ve ne è anche un altro e cioè quello relativo alla disparità retributiva; già perché secondo una pubblicazione Eurostat, diffusa dall'Istat, in media le donne in Italia guadagnano il 5,5% in meno degli uomini. Per quanto possa suonare strano è così. Per una volta, però, siamo messi bene rispetto al resto d’Europa, dove la media sale al 16,3%. Secondo l’Onu, invece, nel mondo la media della disparità salariale tocca il 28%.

Quali sono le azioni che potrebbero essere messe in atto per sconfiggere tale discriminazione bizzarra quanto meno per il mondo occidentale dove la meritocrazia (al di là del genere) dovrebbe essere alla base del tessuto economico e del sistema di sviluppo?

Alcuni nostri vicini hanno iniziato ad affrontare il problema.

Partiamo dall’Islanda, forse il Paese più virtuoso del vecchio continente dal punto di vista della lotta al gender pay gap: qui è stata approvata una legge che prevede che i datori di lavoro forniscano la documentazione sufficiente per ottenere una certificazione ufficiale di azienda o istituzione che rispetta la parità salariale. A controllore le aziende non sono organi di governo ma addirittura la polizia tributaria.

In Germania, invece, le imprese con oltre 200 impiegati devono render conto, a tutti i dipendenti che chiedono informazioni, di quanto viene pagato un collega per la stessa mansione o prestazione lavorativa. In più, le imprese tedesche con oltre 500 impiegati sono tenute a fornire regolarmente rapporti sul trattamento salariale.

Nel Regno Unito, invece, a partire dall’aprile dello scorso anno, i datori di lavoro con minimo 250 dipendenti hanno l’obbligo di comunicare i dati sul divario retributivo e devono riferire la quota di lavoratori maschi e femmine impiegati in ogni fascia salariale. Le informazioni devono essere pubblicate sul sito web delle imprese e su quello del Governo.

E in Italia? Anche il nostro Paese ha una regolamentazione specifica sul tema e ci riferiamo al Decreto Legislativo n.198 del 2006, che ha previsto che le aziende pubbliche e private che occupano oltre 100 dipendenti sono tenute a redigere un rapporto almeno ogni 2 anni sulla situazione del personale maschile e femminile in ognuna delle professioni e in relazione allo stato di assunzioni, della formazione, della promozione professionale, dei livelli, dei passaggi di categoria o di qualifica, di altri fenomeni di mobilità, dell'intervento della Cassa integrazione guadagni, dei licenziamenti, dei prepensionamenti e pensionamenti, della retribuzione effettivamente corrisposta. Qualora le aziende non trasmettano nei termini prescritti il rapporto ai soggetti individuati dalla legge, la Direzione regionale del lavoro, invita le aziende stesse a provvedere entro 60 giorni. In caso di inottemperanza si applicano delle sanzioni che, nei casi più gravi, possono anche prevedere la sospensione per un anno dei benefici contributivi eventualmente goduti dall’azienda.

Tuttavia tale regolamentazione non basta al nostro Paese per arginare il gender pay gap, in considerazione del fatto che il dato del 5,5% rappresenta la sintesi di un valore molto basso per il settore pubblico e di un valore più alto per il settore privato. Forse sarebbe opportuno che anche l’Italia preveda un sistema che obblighi le aziende a dare maggiore evidenza dei livelli salariali adottati al proprio interno al fine di poter generare un effetto emulativo e trainante sia tra le aziende più grandi sia tra quelle più piccole.

 

Fa. Na.

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