Cultura

Incidente Casal Palocco: l’ennesima tragedia per una social challenge finita male

16
Giugno 2023
Di Gaia De Scalzi

Ho chiesto di scrivere questo pezzo con enorme scetticismo del mio Vicedirettore. «Ti prego» – mi ha detto – «evita le generalizzazioni troppo marcate, i giovani non sono tutti youtube e like».

Ci ho provato ma non sono certa di esserci riuscita. Prima ho immaginato un dialogo tra me e mio figlio su cosa avrebbe voluto fare da grande, tremando all’idea che potesse rispondermi “lo youtuber” e non il veterinario o l’astronauta come avrei fatto io alla sua età. Poi ho pensato: ma chi sono io per giudicare chi si chiude ore e ore nella propria stanza, testando videogiochi o provando nuove marche di trucco al fine di orientare le decisioni di acquisto di altri ragazzi? In fondo c’è un giro d’affari intorno a questi nuovi mestieri (che fatico a definire tali) impressionante. Guadagnano migliaia di euro al mese, mentre la mia generazione fatica spesso ad arrivare a fine mese sgobbando più di otto ore al giorno o sporcandosi le mani con lavoretti saltuari.

Tuttavia, da madre – nel dialogo immaginario – avrei risposto a mio figlio proprio come mio padre avrebbe risposto a me se gli avessi detto “voglio fare la velina”, ossia “studia e trovati un lavoro decente, possibilmente un contratto a tempo indeterminato, che sennò la pensione la vedi con il binocolo”.

La pensione la vedrò in ogni caso con il binocolo ma il punto non è questo. Il punto è stabilire un confine tra i nuovi mestieri che la mia generazione fatica spesso a digerire e il delirio di celebrità, quello che alcuni nativi digitali cercano disperatamente tra i like e i feedback di approvazione. Una corsa folle verso la viralizzazione di contenuti (il più delle volte banali), con l’elevato rischio di assuefazione e isolamento.

Un fenomeno che in Giappone chiamano Hikikomori. Giovani che si alienano rispetto alla vita reale fino a sostituirla con quella virtuale, accettando sfide pericolose e mortali pur di guadagnare un numero maggiore di follower e ottenere un riconoscimento social. “Blue whale”, “Black out”, “Chocking game”, “Eyeballing”. Sono solo alcune delle challenge che si sono susseguite in questi anni. Giochi – che giochi non sono – che istigano a tagliarsi le vene, arrampicarsi su un cornicione, resistere il più possibile con una cintura stretta attorno al collo o gettarsi della vodka negli occhi.

Una vita non può valere un like, soprattutto quella di un bambino di 5 anni a bordo di una city car assieme alla mamma e alla sorellina mentre un SUV li travolgeva a 110 chilometri orari. Non un incidente qualunque bensì l’ennesima challenge, “50 ore su una supercar”, documentata da un gruppo di youtuber.

Quindi, figlio mio, studia e trovati un lavoro onesto perché la vita non vale un pugno di like.

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