Politica

Meloni a 1.000 giorni in carica: tra leadership d’immagine e nuove incognite

19
Luglio 2025
Di Beatrice Telesio di Toritto

Sono passati mille giorni dall’insediamento di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi, e in questo traguardo simbolico si cristallizza un paradosso: un governo che resiste non tanto per ciò che fa, ma per ciò che rappresenta. La Premier non si è affermata seguendo i canoni classici della politica dei risultati, ma incarnando un nuovo paradigma di leadership, in cui identità, messaggio e tenuta simbolica contano quanto – se non più – dei contenuti. Come ha scritto Luigi Di Gregorio su Il Giornale di venerdì, non è tanto l’esecutivo a essere saldo, quanto “l’immagine della Premier” a “funzionare”, catalizzando consenso e neutralizzando le crepe di governo.

Questa nuova grammatica politica si fonda sulla costruzione di una figura percepita come autentica, coerente, riconoscibile. Meloni non è solo al vertice del potere: è il brand che legittima l’intero sistema politico che la circonda. Non sorprende, quindi, che ogni evento istituzionale, ogni riforma, ogni uscita pubblica venga confezionata come tassello della sua narrazione personale. È Giorgia  –  e non un partito, non una coalizione – a farsi garante dell’indirizzo politico del governo. Una modalità comunicativa che ha consolidato l’aura di “normalità forte” attorno alla premier, rendendola in qualche modo impermeabile agli scossoni che avrebbero minato altri esecutivi in passato.

Ma tutto questo regge solo finché l’immagine regge. E negli ultimi mesi, i segnali di usura si fanno più visibili. Secondo gli ultimi sondaggi, il consenso cala, di poco, ma con costanza. La stanchezza si avverte, specie tra coloro che attendono risultati concreti sulle questioni economiche e sociali. Anche i toni trionfalistici sulla creazione di “oltre un milione di posti di lavoro”, rilanciati da Meloni nel recente congresso della Cisl, si scontrano con una realtà più complessa, fatta di occupazione precaria, salari bassi e incertezze sul fronte fiscale.

La stessa proposta di un “patto di responsabilità” tra governo e parti sociali, lanciata davanti alla platea sindacale, riflette la volontà di posizionarsi come regista di un nuovo ordine produttivo e istituzionale. Ma qui si intravede forse il limite di una strategia che punta molto sul medio-lungo termine: più che misure immediate, il governo insiste nel delineare strutture future, riforme in cantiere, traiettorie da consolidare. Il rischio, per quanto contenuto, è che questa narrazione proiettata nel domani fatichi a mantenere saldo il legame con le aspettative concrete dell’oggi.

Ed è in questo contesto che si innesta la nuova variabile esterna: il ritorno di Donald Trump e la sua postura protezionista, che ha già preso forma concreta con l’annuncio di dazi del 30% su tutti i beni europei a partire dal primo agosto. Una mossa che rischia di innescare una spirale di ritorsioni commerciali e che l’Unione Europea si prepara a contrastare con contromisure da 20 miliardi. L’Italia si trova ora in una posizione delicata: se da un lato la vicinanza politica tra Meloni e Trump è nota, dall’altro l’impatto economico di una guerra tariffaria sull’export nazionale sarebbe devastante. Roma osserva, prende tempo, ma il margine per l’ambiguità si assottiglia. Quando gli interessi economici sono in gioco, la neutralità non è più una postura sostenibile.