Politica

La montagna partorisce il topolino: passa in via (quasi) definitiva l’età di voto al Senato, mancano tutti gli altri correttivi. La proposta di Martelli: un’assemblea parlamentare unica.

11
Giugno 2021
Di Ettore Maria Colombo

Abbassata l’età del voto al Senato a 18 anni

Come nelle migliori tradizioni, la montagna ha – finalmente, va detto – partorito il topolino. L’altro ieri, infatti, nell’aula della Camera dei Deputati è arrivato il terzo via libera parlamentare alla riforma costituzionale che porta a 18 gli anni (dagli attuali 25) dell’elettorato attivo per il Senato. L’Aula della Camera ha approvato la riforma con 405 voti favorevoli, 5 contrari e 6 astenuti. Si tratta del secondo via libera da parte di Montecitorio. Per l’ok definitivo manca, dunque, solo l’ultimo passaggio al Senato (la sua seconda e definitiva lettura) che si dovrebbe tenere a breve, cioè entro giugno.

Un risultato che, per chi ci crede, è addirittura ‘storico’. Nella Costituzione italiana, infatti, dal primo Parlamento repubblicano, l’elettorato attivo (l’età in cui si può votare) era fissato a 18 anni per la Camera e a 25 per il Senato, mentre quello passivo – che resta esattamente così com’è – è fissato a 25 per la Camera e a 40 per il Senato.

“La norma – spiega, in punto di diritto, il deputato e costituzionalista dem Stefano Ceccanti – provoca, con qualsiasi legge elettorale si voti, una discrasia nei risultati del voto. Sono sempre possibili, cioè, maggioranze diverse, tra Camera e Senato, anche se una coalizione vince le elezioni, perché ‘ballano’ sempre 4 milioni di voti in più (alla Camera) o in meno (al Senato). In questo modo, invece, si rendono impossibili due maggioranze diverse nelle due Camere, come più volte è successo nella nostra storia repubblicana”.

Le dichiarazioni di giubilo di dem e pentastellati

Naturalmente, le dichiarazioni di giubilo, di fronte al voto della Camera, si sprecano. Vanno dal senatore dem e presidente della Prima commissione Affari costituzionali del Senato, Dario Parrini, al presidente della Prima commissione Affari costituzionali della Camera, Giuseppe Brescia, a esponenti di altri partiti, fino al ministro ai Rapporti con il Parlamento, Federico D’Incà (M5s), che esulta: “La riforma consentirà di far partecipare al voto circa 4 milioni di giovani che oggi sono esclusi dall’elezione di una delle due Camere rappresentative dei cittadini e ci allinea agli altri Paesi europei”, conclude D’Incà.

Senato su base regionale e delegati regionali. Le ‘mini-riforme’ che non vedranno la luce

Il problema è che tutte le altre ‘mini-riforme’ che dovevano corredare la ‘mega-riforma’, non vedranno mai la luce. Eppure, erano state ritenute, a detta di tutte le forze politiche, riforme indispensabili, “correttivi” da introdurre subito, dopo lo – scriteriato, a opinione di chi scrive – taglio del numero dei parlamentari (diventeranno 600 alla Camera e 200 al Senato, a partire dalle prossime elezioni politiche, contro gli attuali 945: 630 alla Camera e 315 al Senato, senza toccare, peraltro, i sei senatori a vita, che resteranno tali). Una riforma, quella del taglio dei parlamentari, targata 5Stelle ed entrata in vigore nel 2017 (si tenne, contro di essa, il referendum costituzionale nel 2019, ma perso in mano modo dai proponenti), i cui correttivi improcastinabili e ‘urgenti’ sono però rimasti ‘nella mente di Dio’. Infatti, né il superamento dell’elezione del Senato su base regionale l’abbassamento del numero dei delegati regionali (oggi sono 58) per eleggere il Capo dello Stato, vedranno la luce. Entrambe le ‘mini-riforme’ sono ferme al Senato, in prima lettura, e non fanno un passo in avanti. Il problema è che sono legate, entrambe, a problemi ‘politici’. La prima, la base regionale del Senato, è ferma perché ancora si discute se, e come, cambiare la legge elettorale e logica vuole che la definizione dei collegi discenda da essa.

La seconda, il numero dei delegati regionali, vede l’ostilità della Lega, fermamente contraria, in quanto forza storicamente ‘regionalista’, ad abbassare il numero dei rappresentanti regionali. Ergo, non se ne farà nulla. Eppure, erano state ‘vendute’, dai partiti (tutti, tranne pochi singoli) che hanno votato, per quattro volte, il taglio del numero dei parlamentari, come ‘correttivi’ necessari per accompagnare la Grande Riforma.

Il vero ‘male’ è il bicameralismo perfetto

Una ‘riforma’, quella del taglio del numero dei parlamentari, che peraltro non incide in nulla nel vero problema del sistema parlamentare italiano. Quel bicameralismo ‘perfetto’ che vuole che ogni legge venga votata e approvata, anche nelle virgole, in modo conforme tra Camera e Senato, a rischio di perenne ‘navetta’, cioè di un continuo rimpallo tra le due aule parlamentari.

La proposta di Martelli e altri: fondere Camera e Senato in una sola Assemblea

Una soluzione, in realtà, ci sarebbe, ma molto ardita. L’ha lanciata l’ex vicesegretario del Psi, Claudio Martelli, in un’intervista al Corriere della Sera e in una conferenza stampa tenuta alla Camera dei Deputati dagli “Amici dell’Avanti!”.

Si tratta di fondere Camera e Senato in una sola assemblea legislativa composta da 600 membri e di elevare al rango costituzionale la conferenza Stato-Regioni. Sono queste le due braccia di una riforma costituzionale che è stata illustrata da Claudio Martelli, dal vice-presidente dei deputati di FI, Simone Baldelli, e dal costituzionalista Beniamino Caravita. Una riforma che vuole correggere le storture generate dalla riduzione del numero dei deputati e dei senatori, che entrerà in vigore nella prossima legislatura. “Mentre si predica per la difesa del bicameralismo – ha premesso Martelli – si razzola per togliergli ogni ragione e significato. In una democrazia parlamentare o presidenziale, basti pensare agli Stati Uniti, è invece una regola che vi sia una differenziazione proprio per garantire l’indipendenza del Parlamento”.

Un Parlamento composto da 600 membri”, ha concluso Martelli, ne risulterebbe “rafforzato e rinnovato” e, nel contempo, suggerisce il professor Caravita, alla conferenza Stato-Regioni, riconfigurata e modificata nella sua composizione, “verrebbe affidata la funzione centrale di risolvere i conflitti endemici tra Stato e Regioni”.

Per ora, come detto, si espone Simone Baldelli, che ha già lanciato, un mese fa, la stessa proposta. “A otto mesi di distanza dall’approvazione del taglio del numero dei parlamentari – dice Baldelli – finalmente comincia a muoversi qualcosa sul fronte dei correttivi. Ma è paradossale che questo problema se lo pongano quelli che si sono schierati apertamente per il no, anziché quelli che la legge l’hanno presentata e votata come la madre di tutte le riforme. “Il taglio di senatori e deputati – ha ricordato Baldelli – ha determinato una serie di storture che vanno corrette”. Il “grande pasticcio” cucinato con la riduzione del numero dei parlamentari “causerà problemi di funzionalità del Senato”. “Con 200 senatori il numero delle commissioni permanenti dovrà necessariamente essere ridotto, il ruolo dei senatori a vita diventerà decisivo nella formazione delle maggioranze, i ministri eletti al Senato saranno obbligati a partecipare quotidianamente alle sedute per garantire la maggioranza all’esecutivo, anziché essere impegnati nell’attività del loro ministero”.

Ma anche l’introduzione del monocameralismo determinerebbe rilevanti temi di portata costituzionale. La ‘regionalità’ del Senato dovrebbe essere in qualche modo rafforzata con poteri e funzioni specifiche. “Nel caso si giungesse al monocameralismo – prosegue Baldelli – si dovrebbe pensare alla necessità di un percorso di doppia lettura delle leggi, per rimediare a errori e poterli correggere. L’assemblea nazionale è un’idea forte. Non parliamo dell’abolizione di una delle due Camere, ma di unione di due Camere. Sono molti i temi sui quali si dovrebbe riflettere, ad esempio sulla presentazione dei decreti, sulla loro durata in vigore, sul numero degli articoli di cui sono composti. Oggi, per una cattivissima pressi parlamentare, i decreti vengono presentati in uno dei due rami, esaminati e votati con la fiducia, trasmessi in limine mortis all’altro ramo dove viene definitamente approvato in due giorni con la fiducia”, conclude giustamente Baldelli. Una bella idea, e una bella proposta, non c’è che dire. Ma quanto realmente fattibile? Ah, chi può dirlo.