Politica

Gerusalemme e il credo sovranista di Trump

08
Dicembre 2017
Di Redazione

È di oltre cento feriti il primo, provvisorio bilancio degli scontri esplosi in Cisgiordania e a Gaza dopo l’annuncio del presidente Usa Trump di essere pronto a riconoscere Gerusalemme quale capitale di Israele. La mossa a sorpresa dell’inquilino della Casa Bianca – che applica una risoluzione del Congresso Usa del 1995, ratificata dall’allora presidente Bill Clinton e fino a oggi rinviata per ragioni di sicurezza nazionale – si presta a diverse chiavi di lettura.

In primo luogo, Washington ha smascherato in un colpo solo la fragilità delle narrazioni internazionali secondo cui Russia e Iran sarebbero diventati gli egemoni della regione, dimostrando la sostanziale incapacità altrui di influenzare o neutralizzare le proprie scelte e confermando l’egemonia di fatto degli Stati Uniti nel mondo. Quindi viene il messaggio propagandistico: annunciando il trasferimento dell’ambasciata a Gerusalemme, l’amministrazione Trump ha segnalato al governo israeliano di essere pronta a rendere nuovamente prioritaria la relazione bilaterale. Promessa forse irrealizzabile, se è vero che il Medio Oriente ha perso da tempo la sua centralità agli occhi della superpotenza. C’è poi il tentativo americano di convincere i palestinesi che, incassato un risultato tanto importante, gli israeliani sarebbero ora disposti a ravviare il processo di pace e a tollerare nuove concessioni in favore dei loro interlocutori. Infine le ragioni del consenso interno, con una mossa volta a fidelizzare ulteriormente la propria base elettorale e soprattutto la destra religiosa, spesso decisiva per le fortune elettorali dei Repubblicani.

Per i critici, la Casa Bianca ha invece compattato un mondo arabo e musulmano che fino a oggi si era diviso su tutto, mettendo in grave difficoltà potenze legate a doppio filo con gli Stati Uniti come Egitto e Arabia Saudita. Allo stesso tempo ha rilanciato le quotazioni del leader turco Erdogan, finito in un angolo dopo la débâcle siriana e oggi assurto a primo difensore della causa palestinese. Né è detto che sul piano politico la stessa leadership israeliana attualmente al governo riesca a capitalizzare a fondo il “regalo” di Trump: l’ebraizzazione della Città Santa, difatti, rafforza soprattutto la narrazione della destra ultranazionalista e del revisionismo sionista. Alla Casa Bianca viene imputato di aver semplificato un contenzioso che non è solo nazionale e nazionalista tra israeliani e palestinesi, ma competizione religiosa millenaria tra ebraismo, cristianesimo e islam. È una decisione che ha escluso ogni forma di negoziato e di concertazione con l’altro, confermando l’assunto secondo cui nella questione palestinese c’è chi impone le scelte e chi le subisce. Per capire se si è trattato di un azzardo o meno, bisognerà aspettare la reazione saudita e vedere se gli appelli accorati dei gruppi islamici più estremi riusciranno a far ripiombare il Levante in una terza intifada dopo quella delle pietre del 1987 e quella delle bombe dei primi anni Duemila. Nel mentre, Trump ha ribadito con forza il credo sovranista che lo ha portato alla presidenza.

Articoli Correlati

kamala harris usa 2024
di Giampiero Gramaglia | 27 Luglio 2024

Usa 2024: – 100, gli Obama con Harris, Trump riceve Netanyahu

di Beatrice Telesio di Toritto | 27 Luglio 2024

Nuovi allineamenti occidentali