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Ispi premia Prodi e Monti, il loro messaggio all’Europa
Di Giuliana Mastri
L’Ispi ha conferito il premio annuale a Mario Monti e Romano Prodi. I due, nella cerimonia, hanno parlato a braccio della loro vasta esperienza nelle istituzioni europee, dando il polso della situazione e la propria visione dell’attuale contesto internazionale.
Donald Trump, secondo Romano Prodi, non lascia spazio a interpretazioni: «odia l’Europa». E, precisa l’ex presidente della Commissione, il giudizio è persino più duro, perché Trump «volta le spalle al suo stesso Paese e odia la democrazia». Prodi lo afferma nel discorso pronunciato all’Ispi, dove lui e Mario Monti hanno ricevuto il Premio annuale del think tank. È inevitabile che, con la pubblicazione della nuova Strategia di sicurezza nazionale statunitense, il tema del rapporto tra Washington e Bruxelles diventi centrale. Prodi descrive uno scenario inquietante, in cui la linea politica dell’amministrazione americana si traduce in un’offensiva culturale e strategica contro l’Unione, con effetti potenzialmente destabilizzanti.
Nella lettura di Prodi, quell’affondo contro l’Europa va letto insieme alla postura americana sul dossier ucraino: l’idea di un mondo futuro organizzato intorno a rapporti privilegiati tra oligarchi, «per non dire dittatori», come li definisce lui stesso. Da qui, l’ostilità verso la democrazia liberale e verso l’esperimento europeo, visto come un modello sofisticato ma incompiuto, e per questo attaccabile.
Monti, pur condividendo la preoccupazione, allarga lo sguardo al modo in cui l’Europa ha contribuito da sola alle proprie fragilità. Il documento strategico di Trump esprime, osserva il senatore a vita, un «disprezzo per le lentezze dell’Europa che conosciamo bene pure noi». L’aspetto paradossale, aggiunge, è che questo disprezzo finisce per essere un pungolo: «il suo merito è che ci costringe a lasciare cadere gli scrupoli» sulle riforme necessarie. In altre parole, l’Europa deve approfittare di questa crisi per intervenire sulle proprie inefficienze strutturali.
Prodi ripercorre a ritroso la storia recente dell’integrazione europea, tornando agli anni 1999-2004, quando era alla guida della Commissione. Sottolinea ancora una volta che il risultato più rilevante di quel quinquennio fu l’allargamento a Est, un processo che lui non definisce come «esportazione di democrazia» bensì come il suo opposto: Paesi che chiedevano esplicitamente di «importare la democrazia». E ricorda come, in quegli anni, Vladimir Putin non sollevò contestazioni sull’ingresso dei Paesi post-sovietici nell’Unione, riservando invece le proprie remore all’espansione della Nato, ambito su cui Prodi non aveva competenza.
Il momento di rottura, nella sua ricostruzione, avviene nel 2005, quando il progetto di Costituzione europea viene bocciato in due referendum nazionali. Quella sconfitta, afferma, segnò «l’inizio del processo di decadenza» dell’Unione e l’avvio di un «lungo declino della forza europea». La macchina istituzionale iniziò ad appesantirsi, le fratture interne a irrigidirsi, e la questione dell’unanimità — il vero «cappio al collo» — rimase irrisolta. Parallelamente, si è indebolito il motore franco-tedesco, tradizionalmente sostenuto anche dall’Italia. Senza un rilancio della cooperazione tra Parigi e Berlino, avverte Prodi, «il destino dell’Europa è segnato».





