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Sontag e le immagini di guerra: cosa non vediamo del dolore altrui
Di Ilaria Donatio
Cosa succede davvero quando guardiamo la rappresentazione del dolore degli altri? È possibile “riprodurre” la sofferenza altrui senza trasformare chi guarda in un voyeur e chi soffre in un oggetto di consumo emotivo?
Sono le domande da cui parte Davanti al dolore degli altri, saggio del 2003 di Susan Sontag, intellettuale newyorkese che ha attraversato il secolo con pensiero tagliente e scomodo. In questo libro, scritto poco prima della morte, Sontag torna su uno dei suoi temi centrali – il potere ambiguo delle immagini – con una maturità disillusa e una forte urgenza etica.
Non è un testo che consola. È un’opera che mette a disagio, che scava nel nostro ruolo di spettatori di guerre che non combattiamo, di dolori che non viviamo, ma che consumiamo attraverso foto, telegiornali, social. E proprio per questo conserva, a vent’anni dalla pubblicazione, una forza intatta: Davanti al dolore degli altri resta un atto d’accusa contro la violenza e l’anestesia emotiva che spesso l’accompagna. Perché, come scrive Sontag, «nessuno può pensare e al tempo stesso colpire un altro essere vivente».
Rappresentare il dolore – in una foto, un reportage o un post – non è mai un gesto neutro. Chi fotografa sceglie cosa mostrare. Chi guarda decide cosa vedere. In mezzo, resta l’immagine: potente, parziale, manipolabile. Ogni rappresentazione è una forma di mediazione.
Il rischio è duplice: da un lato c’è la pornografia della sofferenza – quando l’orrore viene estetizzato, reso spettacolo, svuotato del suo peso etico per diventare consumo emotivo. Dall’altro, c’è il pericolo opposto: quello della saturazione, dell’assuefazione. Troppe immagini di guerra non producono maggiore consapevolezza, ma più spesso anestesia. Più guardiamo, meno sentiamo. Più vediamo dolore, meno lo riconosciamo.
Sontag rifiuta l’idea che le immagini parlino da sole: ci spinge a sospettarne, a contestualizzarle. Ma soprattutto, a riconoscere che guardare non è mai un atto passivo. Guardare significa decidere se essere testimoni o spettatori distratti. Significa riconoscere l’altro non come figura astratta, ma come presenza che ci riguarda.
Un episodio emblematico: nel 1994, nel pieno dell’assedio di Sarajevo, il fotografo Paul Lowe allestì una mostra in una galleria semidistrutta, accostando immagini della guerra in Bosnia a quelle scattate in Somalia. Il pubblico reagì con sdegno. Non per le immagini, ma per l’accostamento: mettere in relazione dolori diversi sembrava sminuire il proprio. Una forma di protesta che, per Sontag, rivelava anche un sottofondo razzista – l’insistenza sul fatto che i bosniaci fossero europei – ma che toccava un punto profondo: la necessità di riconoscere ogni sofferenza nella sua unicità.
Documentare vuol dire spesso cercare analogie. Ma chi soffre, ha un bisogno profondo di non vedere il proprio martirio omologato. Ogni dolore è unico, anche quando somiglia ad altri. Quello degli israeliani, minacciati da razzi e attentati. Quello dei palestinesi, chiusi in una prigione a cielo aperto. Quello degli iraniani, colpiti da un regime oppressivo e da attacchi esterni.
Questo scontro di prospettive – tra chi guarda e chi soffre – è uno dei dilemmi irrisolvibili della testimonianza visiva. Non esiste un modo giusto di raccontare il dolore degli altri. Ma c’è un modo sbagliato: far finta che ci riguardi solo quando ci commuove.






