Fill the gap
Cosa ci insegna il MUPA sul potere dell’arte nella lotta alla violenza di genere
Di Marta Calderini
«L’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è», scriveva Paul Klee. Nel dibattito sulla violenza di genere questo è esattamente il punto: le radici della violenza spesso non si vedono e le parole non sono sufficienti per generare consapevolezza. Per contrastarla davvero serve un cambio di paradigma e per ottenerlo non basta introdurre nuove norme, inasprire le pene o condividere protocolli operativi e campagne istituzionali. Servono anche immagini, spazi e simboli capaci di suscitare emozioni, riflessioni e raccontare storie che facilitino il cambio di prospettiva. Il MUPA – Museo del Patriarcato, che ha appena chiuso con successo la sua anteprima a Roma, è la prova che l’arte può rappresentare un veicolo di prevenzione primaria, non un semplice corredo decorativo alle politiche pubbliche.
Promosso da ActionAid e ideato da Stormi Studio, il MUPA è un museo del futuro che guarda al patriarcato come a un pezzo di storia archiviato. In realtà, è un progetto speculativo pensato per parlare in modo diretto del nostro presente: 23 opere, tra reperti, teche, diorami e installazioni interattive, costruite a partire dai dati della ricerca “Perché non accada. La prevenzione primaria come politica di cambiamento strutturale”, per mostrare come le radici della violenza affondino in comportamenti e abitudini normalizzate. Non siamo davanti all’ennesima mostra tematica, ma a un percorso immersivo che trasforma concetti come “stereotipi di genere” o “cultura patriarcale” in un’esperienza fisica.
Alcune delle opere sono state pensate proprio per rappresentare plasticamente le radici della violenza. “Gender Pay Gap Reveal” materializza la segregazione verticale nel mercato del lavoro attraverso una parete di buste paga blu e rosa disposte a organigramma e basta uno sguardo per capire dove si concentrano i ruoli apicali. “Manel” mette sotto vetro i frame dei talk show della tv pubblica in cui di aborto, occupazione femminile o violenza parlano solo uomini, restituendo l’esclusione sistematica dello sguardo femminile dal racconto. “Una Donna” raccoglie titoli di giornale che esaltano astronaute, manager, donne di successo senza citarne nome e cognome, riducendo biografie complesse a eccezioni anonime e, in alcuni casi, macchiettistiche. “Solo” mostra uno smartphone con una chat aperta tra un adolescente e un assistente virtuale, mettendoci davanti alla solitudine emotiva dei ragazzi in un contesto che vieta loro fragilità e vulnerabilità. “Psss”, infine, trasforma la strada di accesso al museo in un corridoio sonoro di catcalling: camminare in mezzo a fischi e molestie registrate rende tangibile, per chi non lo vive sulla propria pelle, il disagio che queste forme verbali e non verbali provocano.
Il successo dell’anteprima dimostra che il dispositivo funziona. In soli cinque giorni di apertura, nello spazio di Albumarte a Roma, oltre mille persone di tutte le età hanno visitato il MUPA, con un flusso costante e il tutto esaurito per talk, laboratori e visite guidate che hanno coinvolto esperte con approccio intersezionale e i centri antiviolenza del territorio. Non è solo una questione di numeri: è la conferma che, quando si offre al pubblico un linguaggio chiaro, concreto e immersivo, il tema della violenza di genere smette di essere una formula astratta e diventa un racconto che riguarda tutti. Non serve, infatti, aver letto testi femministi o manuali di sociologia per orientarsi in questo percorso. È proprio questo il punto: il MUPA non ha parlato solo a un pubblico già consapevole, ma a persone di età, provenienze e livelli di istruzione diversi, grazie a installazioni che partono da esperienze comuni – il lavoro, la televisione, la strada, i social – e grazie a materiali capaci di accompagnare chi ha bisogni di comprensione differenti.
La necessità di affrontare la violenza di genere con linguaggi e contenuti accessibili a tutti e in grado di veicolare un messaggio non solo attraverso la parola è una sfida che deve coinvolgere anche la politica. La Convenzione di Istanbul, principale trattato internazionale sulla violenza contro le donne, non si limita a chiedere agli Stati di perseguire penalmente gli aggressori: chiede esplicitamente un “radicale cambiamento di mentalità” per eliminare i pregiudizi e i ruoli stereotipati attribuiti a donne e uomini. In altre parole, invita i governi a lavorare sulle cause culturali della violenza, non solo sulle sue conseguenze penali. E questo è esattamente il terreno su cui l’arte, la letteratura, la poesia, il cinema, la musica e più in generale i progetti culturali possono diventare alleati strutturali delle politiche pubbliche.
Negli ultimi anni, molte campagne artistiche e culturali efficaci contro la violenza di genere hanno avuto in comune proprio la scelta di immagini semplici, intuitive, difficili da relativizzare. Pensiamo alle panchine rosse, adottate da comuni, scuole e aziende in tutta Italia, ai progetti di teatro civile che portano nelle scuole le storie di femminicidio e di rinascita delle sopravvissute, o ai percorsi di street art che, nei quartieri, dedicano muri e facciate a figure femminili cancellate dalla narrazione ufficiale. Sono esperienze diverse, ma hanno in comune l’idea che l’accesso al senso non debba essere riservato a chi ha gli strumenti culturali per decodificare messaggi complessi.
Questo cambiamento richiede anche di rovesciare la prospettiva con cui guardiamo al ruolo di queste esperienze artistiche: immediatezza comunicativa e profondità analitica non si escludono a vicenda quando forma e linguaggio sono in grado di costruire ponti tra i due livelli. Le ricerche, i rapporti internazionali, le statistiche sono strumenti indispensabili per orientare le politiche; ma perché incidano davvero sul senso comune, hanno bisogno di trovare forme che li traducano in esperienze, situazioni, gesti riconoscibili. Il MUPA fa esattamente questo: porta nel campo visivo ed emotivo ciò che, nei documenti, è descritto come “prevenzione primaria”.
La battaglia contro la violenza di genere è, prima di tutto, una battaglia sul significato di ciò che consideriamo normale. Per chi viene pagata meno, interrotta in riunione, molestata per strada, quella anomalia è evidente; per chi non la subisce, può restare a lungo un rumore di fondo. L’arte serve proprio a questo: ad alzare il volume di quel rumore, a creare una grammatica visiva impossibile da ignorare e che generi consapevolezza. Se vogliamo davvero che un giorno il patriarcato finisca in un museo, dobbiamo cominciare a raccontarlo con parole e immagini che chiunque possa comprendere e, soprattutto, riconoscere. L’arte non è un vezzo nella battaglia contro la violenza di genere, è uno degli strumenti più potenti che abbiamo per spostare, finalmente, il senso comune.






