Fill the gap
Lo sport che educa: il 25 novembre degli stadi e dei palazzetti
Di Valentina Ricci
C’è una domanda che torna puntuale ogni 25 novembre e il Paese si confronta – e spesso a si interroga – sulla violenza di genere: può lo sport fare davvero la differenza? Non solo nelle statistiche, nei bilanci sociali o nelle campagne istituzionali, ma nella vita quotidiana, lì dove nascono le relazioni, la cultura del rispetto, il modo in cui uomini e donne imparano a stare al mondo.
È una domanda che ci accompagna da anni, forse perché lo sport, più di ogni altra grande infrastruttura sociale, ha un linguaggio semplice, universale, immediato. Parla a chi corre e a chi guarda, a chi tifa e a chi allena, ai bambini e ai professionisti. E proprio per questo, ogni volta che federazioni, leghe, atleti e atlete si mobilitano per il 25 novembre, abbiamo l’impressione di assistere a qualcosa che va oltre l’attivazione simbolica: una sorta di coscienza collettiva che si accende.
Quest’anno il movimento appare ancora più compatto. Nel calcio, la FIGC guida un fronte corale che coinvolge tutti i campionati: dai grandi stadi della Serie A fino ai campi della Serie C, dalle partite del massimo livello femminile alle giovanili. Messaggi dedicati scorrono sui led, gli arbitri portano un segno rosso sul volto, capitani e capitane indossano la fascia simbolica, mentre le Leghe affiancano la campagna con spot istituzionali e momenti di riflessione prima del fischio d’inizio. Milioni di persone, ogni weekend, incrociano quei segni. E quando i simboli circolano così ampiamente, finiscono per diventare cultura.
Ma il fronte non è solo calcistico. Il volley rilancia la campagna “Un rosso alla violenza”, che negli anni è diventata un riferimento trasformando i palazzetti in luoghi di testimonianza collettiva. Il basket punta sulla forza delle proprie comunità sportive, coinvolgendo atleti, atlete e allenatori in video, messaggi e interventi che raccontano la responsabilità condivisa. Il rugby, fedele alla propria tradizione comunitaria, affianca ai simboli un lavoro nei territori: attività con le scuole, percorsi con i centri antiviolenza, iniziative dei club del Top10.
Accanto ai grandi sport di squadra si muovono con determinazione anche altri mondi: il tennis dedica una settimana intera a storie e contenuti che parlano di empowerment e prevenzione; il nuoto e l’atletica lavorano nell’invisibile ma decisivo quotidiano degli impianti, delle famiglie, degli allenatori. È lì che la prevenzione smette di essere una parola e diventa una pratica.
Ed è osservando questo mosaico che torna alla mente il fil rouge. Perché lo sport sente il dovere di occuparsi di violenza di genere? Forse perché è una delle poche palestre di relazione rimaste in un tempo che spesso disimpara il rispetto. Lo sport insegna a misurare la forza, non a imporla; a cooperare, non a dominare; a riconoscere l’altro, non a cancellarlo. È l’esatto contrario della logica da cui nasce la violenza.
Per questo, quando un’arena si colora di rosso, quando un palazzetto si ferma per un minuto di silenzio, quando un atleta presta la propria voce a una campagna, non stiamo semplicemente assistendo a un rito civile: stiamo vedendo lo sport svolgere la sua funzione più profonda, quella educativa. Una funzione che spesso arriva dove il dibattito politico si scontra, dove le parole istituzionali non passano, dove la retorica si consuma, che coinvolge non solo chi scende in campo ma anche tutti gli spettatori, fornendo spesso un modello per i più piccoli.
Il 25 novembre, ogni anno, il mondo dello sport alza la voce. Non è una voce che urla: è una voce che educa.
Una voce che parla a tutte le generazioni, che attraversa gli spalti e gli spogliatoi, che entra nelle case e nei bar, che si infila nelle conversazioni dei tifosi e nelle lezioni degli allenatori. È una voce che non cerca lo scontro, ma la trasformazione.






